martedì 30 dicembre 2014

Sui momenti più belli della mia vita

Il Vocabolario Treccani indica il termina passione come "sentimento intenso e violento (per lo più di attrazione o repulsione verso un oggetto o una persona), che può turbare l’equilibrio psichico e le capacità di discernimento e di controllo" e ancora "inclinazione vivissima, forte interesse, trasporto per qualche cosa." È perciò evidente che le passioni non sono qualcosa né di positivo né di negativo e che è bene non giudicare quelle altrui. Anzi, bisogna convivere con le proprie passioni come meglio ci conviene. Grazie alle passioni si riesce senza dubbio a trascorrere meglio la nostra vita, perché esse saranno sempre lì accanto a noi. 

Tranquilli, so che dovrei parlare di calcio, quindi vi accontento. Prima, però, occorre fare una piccola premessa. Mi è stato dato il dono della sintesi - non so da chi, probabilmente dai miei genitori, fatto sta che è un qualcosa che mi appartiene. Cosa più importante è il fatto che l'esser sintetico lo evito spesso: vuoi perché mi piace collegare questo con quell'altro, vuoi perché la ricerca della perfezione è qualcosa che mi è rimasto solo nella scrittura, vuoi perché mi piace sviluppare il tutto nella maniera più completa possibile. Insomma, potrei passare tre vite ad essere sintetico, ma preferisco viverne una in modo totale. Se dovessi parlare, davvero, dei momenti più belli della mia vita, il 90% del post vi indurrebbe a giocare a golf. Quindi, preferisco concentrarmi sul 10% restante, che parla di calcio, ma non solo, e non parla di tutto ciò che è il calcio per me. Prenderò semplicemente un'immagine. Ecco, ho deciso di essere sintetico, perché ve lo meritate voi che mi leggete... sperando ci sia qualcuno.



Questa foto rappresenta un bacio tra due idee esattamente complementari. Non sono due uomini a baciarsi, sono la vittoria e il motivo della vittoria, con alle spalle la sconfitta. 
16.50£: questo è quanto percepiva Gary Neville a settimana nel suo primo contratto con il Manchester United. Ma chi è Gary Neville? Innanzitutto, perché è doveroso dirlo, è l'uomo a sinistra nella foto. E poi è un ragazzo che ha sempre sognato di giocare con il Manchester United e di concludere la carriera all'Old Trafford. Ecco perché la firma su quel contratto ed ecco perché la decisione di non lasciare mai il club inglese, nonostante proposte importanti di altre squadre europee. Il suo unico obiettivo era giocare e vincere tutto con la maglia dei Red Devils. E ci è riuscito.
L'altro, con il cognome ben visibile, è Paul Scholes. Come Neville è nato nella Greater Manchester, ovvero sia la contea dove è situata, appunto, Manchester. Anche lui ha dato tutto per lo United, anche lui ha giocato tutta la carriera lì, anche lui voleva vincere tutto, anche lui ci è riuscito. Insieme ad un gruppo di ragazzi hanno portato ai vertici del calcio inglese ed europeo il Manchester United di Sir Alex Ferguson. Era la classe del '92. Ma non è di questo che voglio parlarvi.

Torniamo alla foto, perché ci sono quei due aspetti fondamentali di cui vi ho detto prima. Era la metà di aprile del 2010, il Manchester United faceva visita ai cugini del City. Il derby è il derby e quei due sanno benissimo cosa significhi, ne hanno giocati a decine. Alcuni bellissimi, come quello d'andata di quella stagione: un 4-3 con gol all'ultimo secondo di Michael Owen, uno che è diventato una bandiera del Liverpool, ma che ha vinto allo United. Gli scherzi del destino. Ah, anche quello di ritorno non scherza. I derby, si sa, sono spesso bloccati però. E in quell'aprile del 2010 accadde proprio questo. Ormai la partita si avviava verso uno 0-0 inutile, che avrebbe allontanato lo United dal Chelsea e dal quarto titolo consecutivo. Appunto, quarto, il che vuol dire che ne erano già stati vinti tre di fila, quindi quella era una grande squadra, con grandi campioni. Uno su tutti, quel giorno, brillò: Paul Scholes. All'ultimo secondo dei tre minuti di recupero, il centrocampista inglese colpì la palla di testa, mandandola in rete. I Red Devils vinsero 1-0, ma ciò non bastò per fermare i Blues di Ancelotti. Niente quarto titolo consecutivo, ma questo ancora nessuno poteva saperlo. Tanto meno Gary Neville, uno che ha lo United nelle vene. Dopo il gol andò dal suo compagno e lo baciò. Un gesto carico di passione, che solo chi sa cosa sia la passione può dare e ricevere. Perché Neville e Scholes sono due che sanno cosa sia il Manchester United e che hanno lottato per renderlo uno tra i club migliori del pianeta. Quella vittoria nel derby, arrivata in quel modo, era dunque per loro l'apoteosi del giocare per quella squadra, di tifare per quella squadra. Dietro, il giocatore del City, ovviamente, è sconsolato. È il volto della sconfitta, è l'altra faccia della passione. Ognuno la vive a modo suo e nessuno deve giudicare quelle degli altri, no? Già, è proprio così. E se pensassimo, per un solo attimo, a cosa sarebbe la nostra vita senza le nostre passioni, ci accorgeremmo che non solo sarebbe vuota, ma che non saremmo nemmeno più noi stessi, saremmo snaturati, privi di una delle parti più importanti della nostra essenza. È grazie alle passioni che viviamo i momenti più belli della nostra vita. Io ho scelto di vivere attraverso il calcio e vi assicuro che non potrei essere più felice, perché è grazie ad esso che ho vissuto alcuni degli attimi più intensi e significativi.

martedì 16 dicembre 2014

Gli eroi non nascono, si creano... ma non diteglielo


L'Arsenal è così, Arsene Wenger è così: di giocatori fatti non ne vuole proprio sapere, li vuole modellare e portare al massimo partendo da zero. Capita però, a volte, che alcune persone siano destinate ad entrare nella leggenda, semplicemente perché ce l'hanno nel sangue e quello è il loro destino, senza bisogno di essere plasmati troppo. Qualche anno fa anche Wenger si arrese all'evidenza e sentenziò il tutto con una frase entrata ormai di diritto nella storia: "Dio non dà tutto agli uomini, ma ad Henry ha deciso di dare tante cose." Già, Henry. L'allenatore di Strasburgo, sia nella vita sportiva che in quella personale di Henry, ha significato molto. Lo ha fatto esordire nel Monaco a 17 anni nel 1994, ma poi le loro strade si divisero. Wenger finì addirittura in Giappone, Henry iniziò a farsi valere tra i professionisti: 141 partite e 28 gol con la squadra del Principato e le prime gioie con la Nazionale, con cui vinse il Mondiale del 1998. 

Succede, talvolta, che gli eroi cadano e tornino più umani. Lo sbaglio è, appunto, un qualcosa di assolutamente umano e normale, ma ciò che differenzia gli eroi è la loro capacità di rialzarsi e guardare nuovamente tutti dall'alto verso il basso. Henry con il Monaco era uno dei migliori giocatori in Francia, ma la prova decisiva sarebbe stata quella oltre i confini nazionali. I monegaschi come punto di partenza, la Juventus come consacrazione definitiva. Però nemmeno agli eroi le cose vanno sempre bene. Anzi, quando si è abituati alla "quasi perfezione", il minimo errore diventa letale. A Torino Titì vive uno dei momenti più bassi della sua carriera, se non il più basso. Il problema della sua collocazione in campo, il grattacapo che già al Monaco lo aveva limitato, torna prepotentemente. Ancelotti, appena arrivato sulla panchina Bianconera, pare quasi non saper che farsene di questo francese mulatto veloce come il vento. Lo piazza sulla fascia, ma la storia non cambia. Henry e la Juve divorziano nel giro di pochi mesi, mezza stagione è quanto basta a tutti per capire che le due parti non sono fatte l'una per l'altra. Lo stesso Ancelotti, qualche anno dopo, ammise di aver preso un'autentica cantonata reputando il francese un giocatore di fascia, non vedendo in lui tutte le sue straordinarie qualità da centravanti.

Gli eroi non nascono, si creano. Ma anche se ci nascono, hanno il bisogno di una guida spirituale. Perché se è vero che Wenger deve qualcosa ad Henry, è anche vero che quest'ultimo deve praticamente una carriera all'allenatore. Arsene ci ha sempre visto quelle "tante cose" dategli da Dio in Titì. La fiducia, però, bisogna anche saperla ripagare. E gli eroi, in quanto a fiducia, se ne intendono. Il nuovo Henry, quello in versione londinese, è nuovo, fresco, rigenerato, è l'incarnazione del nuovo millennio che è ormai alle porte. Finalmente viene fatto giocare nella posizione che più gli si addice, quella del centravanti puro. In coppia con Dennis Bergkamp - un altro non capito in Italia - fa paura a tutte le difese della Premier League. Nella prima stagione mette subito a segno 26 reti (fino ad allora erano 31 tra Monaco e Juventus in cinque stagioni) e nell'estate del 2000 vince l'Europeo con la Francia. Nel 2000 e nel 2001 arriva solo secondo in campionato, mentre nel 2002 l'Arsenal riesce ad interrompere il dominio del Manchester United, diventando campione d'Inghilterra. È solo l'anticipazione di quello che arriverà due stagioni più tardi. Con giocatori del calibro di Ashley Cole, Sol Campbell, Viera, Pires, Bergkamp, in cui Henry è la vera punta di diamante, la squadra di Londra riesce nell'impresa di vincere il campionato senza perdere nemmeno una partita, un traguardo mai raggiunto né prima né dopo in Premier League. Semplicemente: Invincibles.


Gli eroi hanno una casa, ma non una fissa dimora. 17 maggio 2006, Stade de France, Parigi. Finale della 51° edizione della Champions League, la prima volta per l'Arsenal, che sfida il Barcellona. Il trascinatore della squadra, neanche a dirlo, è ancora Henry. Purtroppo non basta: Eto'o e Belletti ribaltano il vantaggio di Campbell, riportando la coppa in Catalogna dopo quattordici anni. In quella stagione, comunque, vinse per la quarta il titolo di capocannoniere della Premier League, stabilendo anche il primato come unico giocatore ad aver segnato 20 o più gol per cinque stagioni di fila. La stagione dopo, però, Henry se ne va dall'Arsenal, perché quella coppa persa in maniera beffarda a Parigi, la deve vincere. 

"Se non puoi batterli, unisciti a loro", avrà pensato. Wenger lascia andare via il suo pupillo per 24 milioni di euro e Titì si accasa al Barcellona. Ci rimane tre stagioni, giusto il tempo di vincere due volte la Liga, una Coppa del Re, una Supercoppa di Spagna, una Supercoppa Europea, un Mondiale per Club e ovviamente quella tanto ambita Champions League. Sempre da protagonista, ovviamente.
Gli eroi hanno anche l'umiltà di farsi da parte e capire che certi livelli e certi ritmi non gli appartengono più. Ma non sarebbero veri eroi, se lasciassero tutto così, di punto in bianco. Bianco come la nuova maglia della carriera di Henry, quella dei New York Red Bulls. È l'inizio di una nuova giovinezza negli States, dove il francese continua a deliziare le platee con numeri di alta scuola.

Gli eroi hanno una casa, e gli mancherà sempre. 9 gennaio 2012, Emirates Stadium, Londra. Una nuova casa, sconosciuta. È il minuto 68 di una partita di FA Cup tra l'Arsenal e il Leeds United. L'uomo che ha fatto impazzire i tifosi dei Gunners per otto anni è finalmente tornato e lo fa alla sua maniera. Entra e segna. In quel momento l'Emirates esplode e tutti i veri amanti del calcio hanno, seppur in minima parte, esultato insieme ai tifosi dell'Arsenal. Arriveranno altre sei partite e un gol, l'ultimo della sua carriera in Premier League, l'ultimo con la maglia dell'Arsenal. 

Gli eroi sono quelli che ti tolgono il fiato, ma ora sono io a chiedervi di trattenerlo per leggere queste statistiche. Miglior marcatore dell'Arsenal con 228 gol in 377 gare, miglior marcatore dei Gunners in Premier League con 175 reti in 258 presenze, miglior marcatore europeo della società con 42 centri in 86 partite. La sua casa era Highbury, il leggendario stadio in cui l'Arsenal ha passato gran parte della sua storia e in cui Henry ha segnato 114 volte. Se ciò non fosse abbastanza, si possono aggiungere i già citati gol con Monaco e Juventus, i 49 con il Barcellona, i 52 con i Red Bulls e i 51 con la Francia, di cui è il massimo cannoniere. E, ovviamente, le oltre 900 partite tra i professionisti. Le due Scarpe d'oro vinte nel 2004 e nel 2005 sono la testimonianza della sua prolificità sotto porta, sancita dai 411 gol in carriera. I cinque riconoscimenti come calciatore francese dell'anno, le sei inclusioni nella squadra dell'anno in Inghilterra e le cinque in quella della UEFA, i tre titoli di giocatori di giocatore dell'anno della FWA e i due della PFA, sono il giusto riconoscimento delle sue straordinarie qualità. Non a caso Pelé lo ha incluso nel FIFA 100, mentre nel 2008 è entrato a far parte della Hall of Fame del calcio inglese. I venti trofei vinti tra Monaco, Arsenal, Barcellona, New York e Francia - fra tutti il Mondiale, l'Europeo e la Champions League - hanno reso grande il palmares di un giocatore meraviglioso. Unica pecca, quel Pallone d'oro che il francese è riuscito solo a sfiorare nel 2003 (secondo) e nel 2006 (terzo). Ma va bene così ad uno che "potrebbe prendere palla in mezzo al campo e segnare un gol che nessun altro al mondo potrebbe segnare." Perché Henry ha fatto del gol la sua arte e del campo da gioco la sua tela. In questi vent'anni di carriera ha dipinto traiettorie impossibili e fatto divertire milioni di tifosi in tutto il mondo. 


Ora inizia un nuovo capitolo della sua vita, quello di opinionista. Perché gli eroi non nascono, né si creano, ma si trasformano. Proprio come Thierry Henry è riuscito a fare nella sua leggendaria carriera.
Au revoir Titì, merci pour tout.




giovedì 27 novembre 2014

Principi non troppo fiabeschi, parte uno

L'eleganza è quella raffinatezza che ti fa eccellere su tutti, quella che ti distingue, quella che ti mette su un piedistallo per farti ammirare dagli altri. Meglio di un piedistallo, c'è solo un trono; che però è per i re, per quelli che hanno delle responsabilità e devono caricarsi tutto sulle spalle. Capita, a volte, che arrivino persone in grado di sopportare il peso di tutti, ma che lasciano il trono agli altri. Forse aspettandolo, o forse fregandosene. Sul piedistallo ci finiscono loro e, volendo, per la loro innata eleganza consegnatagli dalla natura, vengono chiamati principi. Salta subito alla mente il legame tra la parola "principe" e il calcio. Questa storia, invece, di immediato e scontato non ha nulla, perché ad unire argentini ed uruguaiani ce ne vuole. E anche tanto.


Siamo a Montevideo, la magnifica capitale dell'Uruguay che ha appena ospitato e vinto il primo Campionato Mondiale di Calcio. In finale, visto che di incroci ne avevano avuti pochi, ci arrivarono i padroni di casa e l'Argentina, che perse 4-2 dopo aver concluso il primo tempo in vantaggio 1-2. Quella Celeste aveva dominato incontrastata il decennio 1920/30, portando a casa quattro titoli di campione del Sud America, due titoli olimpici e il Mondiale sopracitato, grazie ad una fenomenale generazione di talenti come Nasazzi, Andrade, Cea, Scarone, Petrone. Con il passare del tempo, però, i giocatori iniziano ad invecchiare e a ritirarsi. Si arriva quindi al 1935, dove sono ancora presenti il capitano Nasazzi e il bomber Hector Castro, che vinsero la finale contro l'Argentina nel 1930. C'è ancora l'Albiceleste sulla loro strada, stavolta nella partita decisiva del girone unico del Campionato Sudamericano. Ovviamente, in quegli anni, sono arrivate nuove forze fresche e fra tutti si deve citare Anibal Ciocca, una giovane mezz'ala in forza (quando mai) al Nacional. Approdato al Tricoleres nel 1931 dopo soli pochi mesi di permanenza nei Montevideo Wanderers, si mette subito in mostra già dall'età di 15 anni, dimostrandosi un calciatore dotato di grandi mezzi tecnici. Nel 1934 e nel 1936 vince la classifica marcatori del campionato, rispettivamente con 13 e 14 reti. In mezzo, però, c'è una Copa America da vincere e il suo contributo si noterà eccome. Nella seconda partita rifila una doppietta al Cile, facendo diventare, di fatto, l'ultima partita contro l'Argentina una finale: entrambe le squadre, infatti, erano a quota 4 punti. Già al 36' la Celeste chiuse i conti con un secco 3-0 e l'ultimo gol lo segnò proprio Ciocca. Dopo questo trionfo, arriveranno altri cinque campionati uruguaiani dal 1939 al 1943, che si aggiunsero a quelli del 1933 e 1934, per un totale di otto, sommando anche quello del 1946, anno in cui Anibal si ritirò.
Non appare spesso nei libri di calcio, ma all'epoca era uno dei giocatori più forti di tutto il panorama sudamericano. In un tempo in cui nel calcio l'equilibrio tra difesa e attacco era tutto orientato verso la zona offensiva, riusciva a dare la giusta armonia al Nacional e alla Nazionale, grazie anche ad una grande intelligenza calcistica, che lo faceva apparire un gradino sopra agli altri. Veniva chiamato "Hombre cerebral" e la sua compostezza ed eleganza contribuirono a dargli il soprannome di "Principe". Con oltre 150 gol in 350 partite e con in bacheca otto titoli nazionali e due Campionati Sudamericani, fu sicuramente uno dei migliori attaccanti del suo paese e di tutto il Sud America a cavallo tra gli anni '30 e '40.

domenica 26 ottobre 2014

Senza mai arrendersi

Se non ci avesse creduto fino in fondo nemmeno lui, probabilmente ora sarebbe ancora alla ricerca della propria dimensione all'interno del mondo calcistico. Graziano Pellè è uno di quelli che ha dovuto girare tanto, forse troppo, prima di trovare l'occasione giusta, la svolta inseguita per una vita intera. 
Siamo ad Ibiza, nell'estate del 2012. Graziano è sulla spiaggia, quando arriva un ragazzo che gli porta i saluti del figlio di Ronald Koeman, suo allenatore per pochi mesi all'AZ Alkmaar, che però ora è già da un anno alla guida del Feyenoord. Pellè ricambia i saluti e dice di chiedere al padre se lo rivoglia in squadra. L'olandese non ci pensa due volte e l'attaccante italiano torna nei Paesi Bassi, dopo un anno da dimenticare in Italia; perché sì, Pellè ha giocato anche nel Bel Paese, che proprio bello, per lui, non si è mai rivelato. Tra Lecce e Catania, conclude le prime tre stagioni da professionista con 0 gol segnati in 28 apparizioni. Troppo poco per un attaccante, specie per un esordiente che deve dimostrare tutto e che non può permettersi di sbagliare nulla. È ancora giovane, però, ad appena 20 anni non si possono lanciare sentenze. Il Lecce, nonostante tutto, crede in lui e lo manda nuovamente in prestito, dove finalmente arrivano i primi gol con i club: metà a stagione a Crotone in Serie B (17 presenze e 6 gol) e l'intera stagione 2006/2007 a Cesena, dove timbra 11 volte il cartellino in 39 partite. Viene convocato per l'Europeo Under 21 in Olanda, dove gli Azzurrini vengono eliminati già al primo turno, vincendo però ai rigori lo spareggio contro il Portogallo valido per l'accesso alle Olimpiadi di Pechino 2008. Il primo rigore della serie italiana lo segna proprio Pellè, a secco nelle tre partite del girone. Seduto da qualche parte nelle varie tribune, lo nota Louis van Gaal, allenatore dell'AZ Alkmaar, che rimane notevolmente colpito dall'attaccante del Lecce. Per 6,5 milioni Graziano approda (o meglio, rimane) in Olanda, trasferendosi ad Alkmaar. A 22 anni, dunque, arriva la prima, vera grande chance della sua vita. La prima stagione, però, non conferma i progressi ottenuti a Crotone e Cesena: arrivano la miseria di 4 reti in 32 presenze totali. La seconda, la terza e la quarta non sono migliori. Oltre al titolo del 2008/2009, a cui ha contribuito molto poco, e alle prime apparizioni in campo europeo, l'avventura di Pellè in Olanda è tutt'altro che indimenticabile. Tra luglio e gennaio del 2009, avviene un incontro che gli cambierà la vita: sulla panchina dell'AZ arriva Ronald Koeman. Anche per l'ex giocatore di Ajax e Barcellona, l'esperienza non si rivela granché, venendo esonerato dopo una brutta serie di sconfitte. Intanto Pellè assorbe, piano piano, gli insegnamenti di van Gaal e Koeman: sa che gli torneranno utili, perché sa che, prima o poi, arriverà anche il suo momento, arriverà quella svolta inseguita da 26 anni. Siamo infatti nel 2011 e dopo una stagione, la migliore in Olanda, che lo ha visto marcare 6 gol in 20 gare, il tecnico Verbeek non lo riconferma e lo mette sul mercato. Torna in Italia, sapendo di non aver dimostrato tutto il suo valore in Eredivisie. Torna in Italia con la consapevolezza che questa volta non può più sbagliare, perché gli anni ormai sono 26 e le occasioni, presto o tardi, finiranno e a quel punto bisognerà tirare le somme. Lo acquista il Parma per 1 milione di euro. La prima parte di stagione è da dimenticare, quindi i Crociati decidono di mandarlo in prestito alla Sampdoria in B. Qui, con 4 gol in 12 presenze, contribuisce al raggiungimento dei play-off, dove non segna, ma grazie ai quali i Blucerchiati tornano in Serie A. Graziano, invece, fa ritorno a Parma, ma solo per qualche settimana, perché siamo arrivati all'estate del 2012 e abbiamo fatto scalo ad Ibiza. Dopo un viaggio lungo quasi nove anni, iniziato quel gennaio 2004 in cui avvenne l'esordio con la maglia del Lecce. Un percorso fatto di tanti, troppi bassi e di quasi nessun alto. Un cammino in cui, comunque, Graziano ha saputo capire con chi e dove è riuscito a trovarsi bene. Prima con van Gaal, poi con Koeman. Sempre all'AZ, sempre nei Paesi Bassi. Ecco perché, dopo aver esordito nella Serie A 2012/2013, Pellè torna nuovamente sotto la guida di Koeman, quasi come fosse il suo maestro. Se poi è il destino a farti recapitare i suoi saluti su una spiaggia ad Ibiza, qualcosa vorrà pur dire.


Se insegui qualcosa, non smetterai mai di farlo; se non credi in te stesso, non troverai mai la tua strada. Graziano ha sempre capito che sarebbe arrivata la sua occasione e la ha cercata fino in fondo. Koeman in quel ragazzo ci ha visto qualcosa di speciale e Pellè lo ha ripagato. A suon di gol. Finalmente a suon di gol. 50 in 57 partite di Eredivisie, 55 in 66 apparizioni totali. Numeri da grande attaccante, che fanno tuttavia nascere i primi scetticismi. L'accusa è rivolta soprattutto alle difese ballerine del campionato olandese, che rendono il compito del centravanti molto più facile rispetto a Italia, Inghilterra o Germania. L'opinione pubblica sul reale potenziale dell'attaccante italiano si divide in due: c'è chi dice sia pronto per la Nazionale, mentre i suoi detrattori fanno valere la tesi delle difese non all'altezza. Pellè, in ogni caso, sa di aver raggiunto la sua ideale dimensione calcistica. Come ogni giocatore, comunque, vuole continuare a crescere e a dimostrare tutto il proprio valore. L'occasione arriva nuovamente da Koeman, approdato al Southampton la scorsa estate. La squadra ha praticamente mandato via tutti i talenti che avevano portato i Saints nelle zone nobili della classifica: venduti Lallana, Lovren, Shaw, Chambers e Lambert. Proprio il vuoto lasciato dalla punta inglese, costringe l'allenatore olandese a ricorrere ad un innesto offensivo nel mercato. Per 11 milioni di euro, l'attaccante del Feyenoord arriva in Inghilterra, per ricomporre la coppia magica con il suo manager. Nelle prime 9 partite di Premier League mette a segno 6 gol, trascinando il Southampton ad un improbabile secondo posto in classifica, solo alle spalle del Chelsea di Mourinho. La squadra che doveva lottare per la retrocessione, si ritrova nelle zone di alta classifica, guidata da allenatore e giocatore del mese di settembre. Koeman e Pellè si sono subito adattati all'aria della terra d'Albione e ciò ha giovato inevitabilmente sulle prestazioni di tutto il team. A 29 anni, quindi, l'attaccante leccese sembra aver trovato ciò che cercava.


Già così è una bella storia, ma tutte le belle storie hanno la ciliegina sulla torta. Dal sud dell'Inghilterra, voliamo fino a Malta, che dell'Impero Britannico fu colonia. È il 13 ottobre 2014 e Graziano Pellè, dopo una vita passata a girovagare qua e là, esordisce con la maglia dell'Italia nelle Qualificazioni ai prossimi Europei. E siccome questa è la storia di un ragazzo che di sprecare l'occasione proprio non ne vuole sapere, segna anche il gol vittoria. Un gol per dire che lui c'è, che c'è sempre stato, anche quando Prandelli non lo prendeva in considerazione, anche quando il suo posto era di Balotelli, anche quando vinceva l'Eredivisie senza contribuire troppo, anche quando non riusciva ad esprimersi al massimo in Serie A. Lui era lì, pronto a sfruttare la sua chance, perché sapeva che sarebbe arrivata. Ha lavorato tanto e alla fine ha ottenuto tutto quello per cui ha lottato. E sono sicuro che, nonostante ormai gli anni siano 29, questo sia solo l'inizio.

mercoledì 8 ottobre 2014

Noi contro noi; voi contro voi

Günter Grass
“Le cui licenziose fiabe ritraggono la faccia dimenticata della storia". È questa la motivazione con cui hanno assegnato, nel 1999, il Premio Nobel per la letteratura a Günter Grass, scrittore tedesco nato a Danzica nel 1927. L'ultimo anno del '900, pubblicò un libro intitolato "Il mio secolo", una raccolta di cento brani che, anno per anno, raccontano la storia del XX secolo. Un affascinante ritratto degli avvenimenti culturali e sociali che hanno caratterizzato, nel bene o nel male, la Germania e il mondo intero: dalla Prima Guerra Mondiale, alla caduta del Muro di Berlino; da Hitler, al disastro di Chernobyl; dal Campionato Mondiale di Calcio del 1954, a quello del 1974. Già, perché anche in un libro scritto da una persona insignita del Nobel, il calcio c'entra sempre; soprattutto se quei due Mondiali li ha vinti la Germania. Certo, ma quale Germania? L'Ovest, ovviamente. Quella ricca, quella benestante, quella dove tutto va bene. Succede, però, che nel 1974, nei Mondiali della Germania Ovest, ci sia un'incredibile partita Germania contro Germania. Ovest contro Est, ricchi contro poveri, campioni contro scarsoni. Attenzione, però, perché si tratta pur sempre della stessa nazione. E allora, per chi tifare? È una domanda che si pone lo stesso Grass, ma è una domanda a cui, in fondo, hanno cercato di dare una risposta tutti i tedeschi. La risposta ha un nome e un cognome: Jürgen Sparwasser. È il centrocampista del Magdeburgo che va forte nella DDR: campionato e Coppa delle Coppe nel 1974. È anche il centrocampista della Germania Est che vince le Olimpiadi nel 1972. È anche il giocatore tedesco che segna alla Germania, nel Mondiale casalingo. È la risposta a quella domanda: per chi tifare? Semplice, per la Germania. Quale? L'unica che c'è: quella unita. 
Grass lo menziona nel suo secolo, ma in realtà, il vecchio Sparwasser dovrebbe essere nella memoria di ogni tedesco: di ieri e di oggi. Di quelli che hanno vissuto ad Ovest, di quelli che hanno vissuto ad Est e di quelli che vivono, oggi, nella Germania unita; ma soprattutto, deve rimanere nella mente di chi all'Est e all'Ovest non ci ha mai seriamente pensato, perché dall'altra parte, ha sempre saputo che ci stavano altri tedeschi. Non gente estranea, ma gente che condivideva tutto con la tua cultura. 

Jürgen Sparwasser
Quella partita, però, si giocò. Era il 22 giugno 1974. Lo stadio il Volksparkstadion di Amburgo. Le persone circa 60.000, di cui 8.000 arrivate dall'Est, con un permesso speciale, ovviamente. Già, perché il Muro era ancora in piedi e passare da una parte all'altra era... beh, non era. Semplicemente, non era. Come non fu quella partita. La Germania Ovest, ricca di talenti, non riusciva a venire a capo di una faccenda che, almeno sulla carta, non avrebbe dovuto dare grossi grattacapi. Invece arrivò la sorpresa. Al 78' Hamann, da metà campo, fa partire un bolide che taglia la trequarti dell'Ovest e trova Sparwasser: il pallone gli rimbalza davanti, lui chiude gli occhi, gira la testa come a ripararsi e impatta perfettamente la sfera. Quando li riapre, il povero Höttges viene completamente mandato fuori tempo, Sparwasser lo supera, rinviene Vogts, esce Maier, ma ormai il destino è segnato: il centrocampista del Magdeburgo scaglia un bolide nella porta della Germania... e manda avanti la Germania. Beckenbauer urla, a gran voce, che non è successo niente. In realtà è successo tutto. Il risultato rimarrà quello: Germania-Germania 1-0. E non è solo l'Est ad aver battuto l'Ovest. No, erano i tedeschi in generale ad essersi resi conto che quelli che chiamavano "loro", non erano nient'altro che un unico "noi". Il Muro sarebbe stato abbattuto solo quindici anni dopo, ma il primo mattone fu distrutto quella sera del 1974. E Grass lo sa bene.
Sparwasser anticipò tutto e tutti. Nel 1988, in occasione di una partita di beneficenza disputata nell'Ovest, portò tutta la sua famiglia dall'altra parte. Fu etichettato come un traditore da chi in lui aveva visto un eroe nazionale, dell'Est ovviamente. Un simbolo per dire che, almeno per una volta, gli orientali avevano avuto ragione degli occidentali. A lui, però, di queste cose importava poco. Lui si sentiva tedesco, come la maggior parte dei suoi connazionali. 
Fece fare un passo in avanti, quando ancora si era troppo indietro. Disse che «Prima chi sventolava una bandiera tedesca era considerato un militarista, ora è visto solo come un tifoso. Un bel passo in avanti, non vi sembra?» Dovette aspettare ancora un anno, il 1989, affinché quel Muro che aveva iniziato ad abbattere lui, venisse finalmente raso al suolo. Nel 1990 tornò la Germania unita, l'unica che ha ragione di esistere. Senza Est e senza Ovest. 

Il gol di Sparwasser (da sinistra a destra): Sparwasser, Höttges, Vogts e Maier

Sparwasser voleva solo fare l'insegnante, ma fu obbligato a fare il calciatore. E da calciatore è entrato di diritto nella Storia, con la S maiuscola, del XX secolo. Non solo di Grass, non solo della Germania, ma di tutto il mondo. 
Questa non è una fiaba, non ritrae la faccia dimenticata della storia, perché questa storia non può essere dimenticata. D'altra parte, io non sono Grass, non ho vinto il Premio Nobel e, quindi, dovete accontentarvi di questo breve racconto su un uomo che fu un anticipatore dei tempi. E che per questo sarà sempre ricordato.

(Prendendo ispirazione dal libro "Un calcio alla storia")

mercoledì 3 settembre 2014

Radamel Falcao: un colombiano con due eredità brasiliane

Radamel Falcao Garcia Zarate. Questo il nome completo di uno degli attaccanti più forti al mondo in questo momento. Tiro letale, dribbling secco, fisico invidiabile e un tempismo aereo con pochi eguali.
La sua storia inizia a Santa Marta, in Colombia: la Perla delle Americhe, come è stata definita da molti. Una splendida cittadina affacciata sul Mar dei Caraibi, meta turistica molto gettonata per le sue spiagge e i suoi paesaggi. Tra gli altri, anche Carlos Valderrama è nato lì. Quindi, di calciatori forti, ne son già passati sulle coste caraibiche. Un altro giocatore nato da quelle parti è Radamel Garcia, che altri non è che il padre di Radamel Falcao. E Radamel (padre) quando era ragazzo, ammirava un elegantissimo centrocampista che ha fatto le fortune di Internacional e Roma, vale a dire Paulo Roberto Falcao, meglio noto come Falcao. Ne rimase talmente innamorato calcisticamente, che decise di omaggiare il fantasista brasiliano dando come secondo nome a suo figlio proprio Falcao. Era il 10 febbraio 1986 quando nacque il piccolo Radamel, l'anno del ritiro dal calcio giocato dell'ex Roma, che chiuse la sua carriera dopo il Mondiale in Messico. 
Radamel Falcao, però, sin da subito capì che il ruolo di centrocampista non era il suo forte e si dedicò, già da bambino, a quello di attaccante. Nel 1999, a 13 anni, debutta nella seconda divisione colombiana con la maglia del Lanceros. Qui viene notato dal River Plate, che non se lo lascia sfuggire e lo promuove in prima squadra nel 2005. Rimane in Argentina per quattro stagioni, segnando 45 reti in 105 presenze. Nel 2009, quindi, approda in Europa, al Porto e inizia a farsi conoscere nel calcio che conta. Al primo anno timbra 34 volte il cartellino in sole 43 apparizioni, ma è la stagione successiva quella della svolta. In Europa League è terrificante, trascinando quasi da solo il Porto alla vittoria. In totale mette a referto 38 gol in appena 42 gare: quasi un gol a partita! 
Dopo queste prime due stagioni europee, il suo soprannome, El Tigre, pare essere azzeccato. Anche qua c'entra un ex giocatore brasiliano, tale Arthur Friedenreich, attaccante del Brasile campione sudamericano nel 1919, grazie a un suo gol. Proprio come il brasiliano, Falcao trova la porta con estrema facilità, tramutando in gol ogni pallone toccato. Anche all'Atlético Madrid la storia è questa: sono infatti 70 le reti in 91 partite. Al Monaco la musica non cambia: 22 presenze e 13 trasformazioni. In Nazionale sono 21 gol in 50 apparizioni.
Ora, dopo aver mosso cifre disumane per i suoi trasferimenti (oltre 40 milioni dai Colchoneros, quasi 60 dal Monaco e ora 12 con un riscatto di 55 dal Manchester United) il colombiano è arrivato all'apice della carriera. 
Non sarà diventato un centrocampista come il vero Falcao e c'entrerà poco con Friedenreich, ma se ti chiami Falcao e il tuo soprannome è El Tigre, qualcosa di brasiliano lo avrai. E se hai qualcosa di brasiliano, nel mondo del calcio, vuol dire che un pochino bravo lo sei. E su questo, non ci sono dubbi, perché Radamel Falcao è uno degli attaccanti più forti del mondo.


giovedì 14 agosto 2014

Lampard e quella promessa mantenuta solo a metà

Il Chelsea, come lo conosciamo oggi, dominante in Inghilterra e in Europa, è nato sul finire degli anni '90 grazie, principalmente, a due italiani: Gianluca Vialli e Gianfranco Zola. Insieme - prima in campo, poi con Vialli in panchina - hanno portato a Londra una FA Cup, una Coppa di Lega Inglese, una Charity Shield, una Coppa delle Coppe e una Supercoppa UEFA. In poche parole, hanno raddoppiato il palmarès del Chelsea, che vedeva solo una First Division, una FA Cup, una Coppa di Lega, una Charity Shield e una Coppa delle Coppe. I primi due, veri protagonisti della rinascita dei Blues sono loro e, ancora oggi, Zola è ricordato come uno dei migliori giocatori della storia del Chelsea, se non addirittura il migliore, come emerso da un sondaggio di qualche anno fa. La svolta decisiva arriva però con l'acquisto della società da parte del magnate Roman Abramovich. Il russo prende in panchina José Mourinho, che porta definitivamente alla ribalta la squadra di Stamford Bridge. Arrivano subito due Premier League e una FA Cup in tre stagioni, ma all'inizio della quarta c'è il divorzio. È la stagione più difficile da affrontare per Terry e compagni, perché si ritrovano senza la loro guida, il maestro che gli ha fatto conoscere il gusto della vittoria dopo anni di anonimato. È la stagione più difficile anche per Frank Lampard, simbolo della rinascita del Chelsea. Arrivato nel 2001 a 23 anni dal West Ham, nel 2007 si apprestava ad iniziare il suo settimo anno con la maglia dei Blues, ma alla soglia dei trent'anni aveva voglia di cambiare e provare nuove esperienze. Nella sessione di mercato invernale, Juventus e Inter premono forte per ottenere il centrocampista inglese, ma si conclude in un nulla di fatto. Ed è così che Frankie continua a giocare per il Chelsea ed è così che arriva a disputare il derby inglese contro il Liverpool in semifinale di Champions League. Era il 30 aprile 2008. L'andata ad Anfield si concluse 1-1. Anche al Bridge i primi 90' finirono 1-1 e si dovette andare ai supplementari. Al 98' Lampard batte un calcio di rigore. E segna. Fa 2-1 e poi corre verso la bandierina e si inginocchia. E piange. Scoppia in un pianto surreale, abbracciato da tutta la squadra. Non sono lacrime di felicità, però. No, sono lacrime amare, tristi. Le lacrime di chi ha appena perso una madre. Sono anche le lacrime di chi ha fatto una promessa a quella madre, poco prima di morire. Sono le lacrime di un giocatore, anzi di un uomo, legato da sette anni alla stessa squadra e che ha promesso alla madre che quei sette anni sarebbero diventati sempre di più e che la propria carriera sarebbe finita lì. L'estate dopo Juventus, Inter e Barcellona erano solo un ricordo passato. Il presente si chiamava Chelsea, sancito da un rinnovo che avrebbe legato Frank a vita alla squadra di Londra. Con gli anni sarebbe diventato il marcatore più prolifico nella storia dei Blues. Con gli anni avrebbe vinto tutto quello che c'era da vincere, inclusa quella Champions League, persa nel 2008 contro il Manchester United, ma vinta nel 2012 contro il Bayern Monaco. La promessa era stata mantenuta. Ogni gol, da quel 30 aprile, aveva un significato speciale per Lampard, che ogni volta alzava le braccia il cielo, ricordandosi della sua amata mamma. 


Con Mourinho ha vissuto tre anni bellissimi, segnando 60 gol in 170 presenze: cifre mostruose per un centrocampista. Con Mourinho ha iniziato a vincere, senza poi smettere. Cambiando allenatori, certo, ma mantenendo sempre intatta quella sua innata dote per il gol, quella che lo ha sempre contraddistinto e che con il portoghese è uscita fuori definitivamente. Forse è proprio per questo che Frank ha aspettato il ritorno - annunciato - del portoghese per dire basta. Basta con il calcio, tutti si aspettavano. E invece no. Lampard è migrato in America, per poi andare in prestito nientemeno che al Manchester City. Un affronto duro per i tifosi del Chelsea, che non hanno affatto gradito la scelta di uno dei loro uomini più rappresentativi. E in un calcio in cui le bandiere son sempre meno, questa è stata una mossa che ha fatto rabbrividire qualsiasi tifoso.
Il mio pensiero, in questo momento, va a sua mamma e a quella promessa mantenuta solo a metà. A quella promessa buttata via. A quella promessa che tutti si aspettavano sarebbe stata mantenuta, o, quantomeno, non sconvolta in questo modo. Perché fra tutte le squadre di questo mondo in cui andare, ha scelto una fra le peggiori. E, forse, dopo questa strana estate, il giocatore più amato dai tifosi del Chelsea, rimarrà ancora "Magic Box" Gianfranco Zola. Uno che, ovunque sia andato, ha sempre lasciato un segno. Segno che Lampard ha sì lasciato nel cuore dei Blues, ma che rischia di essere cancellato da una scelta assurda e illogica. 






lunedì 11 agosto 2014

E ora cosa sei? E dove sei?

«La Freccia Bionda lo fui un tempo. Poi fui la "Carretta Bionda". E ora sono il calvo che corre per il campo, lottando come il più giovane per tutta la partita». Così Alfredo Di Stéfano si definì sul finire della sua splendida carriera. E come dargli torto: era calvo, sì, ma aveva mantenuto la stessa grinta che lo contraddistinse negli anni migliori. Quelli che lo videro vincere qualsiasi cosa tra Argentina, Colombia e Spagna, in una carriera ultra-ventennale che lo ha consacrato tra i migliori di sempre nella storia del calcio. Il suo palmarès parla per lui: tredici campionati e due coppe nazionali, oltre, ovviamente, alle famose cinque Coppe Campioni consecutive, conquistate con il Real Madrid. Nel 1957 e nel 1959 vinse il Pallone d'oro, quale miglior giocatore europeo. A livello personale, inoltre, conquistò un totale di dieci titoli di capocannoniere nelle varie competizioni a cui prese parte. Questi, pochi, numeri possono bastare per celebrare la grandezza del calciatore. C'è un però: Alfredo è morto. È morto e con la sua scomparsa il calcio ha perso un pezzo di storia, un pezzo della propria identità. Con l'addio di Di Stéfano il calcio ha perso uno dei suoi migliori attori, registi, produttori e sceneggiatori. Insomma, il calcio è diventato un po' più vuoto da quel 7 luglio 2014. E la domanda che mi faccio, ora, è soltanto una: dopo essere stato la Freccia Bionda, la Caretta Bionda e il calvo, adesso, caro Alfredo, cosa sei? E soprattutto dove sei? Dove sei tu, insieme a tutti quei grandi campioni del passato, appartenenti ad un calcio che ormai non c'è più? Dove sono i calciatori modello di una volta, i veri professionisti del pallone? 
Domande stupide, che non avranno mai una risposta, ma io me le pongo, sperando di poter vedere nuovamente, un giorno, quei grandi campioni di un tempo, di cui ormai ci restano solo delle sbiadite immagini in bianconero. Sperando, però, anche che quelle immagini rimangano impresse nella memoria della gente, in eterno, affinché nessuno si dimentichi del bel calcio fu. Un calcio in cui Alfredo Di Stéfano la faceva da padrone.
¡Hasta siempre Don Alfredo gracias por todo!



domenica 3 agosto 2014

L'uomo da 24 milioni

E pensare che lo avevano etichettato come malato di mente, José Mourinho. Proprio lui, lo Special One, come si autodefinì al suo arrivo al Chelsea nell'estate del 2004. Era il campione d'Europa in carica, fresco vincitore della Champions League con il suo Porto. Quello era ancora l'inizio della sua carriera, che lo avrebbe poi portato a diventare uno degli uomini più importanti del calcio moderno. Era anche l'inizio del Chelsea di Roman Abramovich. Dopo una stagione con Claudio Ranieri in panchina, il neo-patron russo decise di cominciare a fare sul serio e ingaggiò l'allenatore portoghese, che si portò dietro dal Porto Paulo Ferreira e Ricardo Carvalho, che andarono a costituire una solida difesa insieme ai già presenti Gallas e Terry. Abramovich, però, non si fermò qui e diede libero arbitrio a Mourinho, che in poco tempo, grazie ai milioni del russo, costruì una corazzata. Dal PSV arrivarono Mateja Kezman e un ventenne Arjen Robben, mentre dal Rennes un giovane portiere di nome Petr e di cognome Cech. Degli ultimi due, ne risentiremo parlare. Il botto di mercato, però, è un altro. Dal Marsiglia arriva un attaccante ivoriano di ventisei anni. Risponde al nome di Didier Drogba e viene pagato la bellezza di 24 milioni di Sterline. Una cifra incredibile per quei tempi (passati, purtroppo) e che getta i primi dubbi su Mourinho. La stampa lo accusa di essere un malato di mente, per aver speso tutti quei soldi per un giocatori "buono", ma nulla di più. 
Il portoghese, come suo solito, continua dritto per la sua strada e non ascolta nessuno. Non vuole essere chiamato arrogante, ma in realtà lo è. E lo sa bene. Dice di avere i migliori giocatori e, ovviamente, di essere il miglior allenatore. La squadra di Londra non vince un campionato (il suo unico) dal 1955 e Mourinho sa che il suo unico obiettivo è quello: diventare campione d'Inghilterra. Davanti ha l'Arsenal degli Invincibili campione in carica e il Manchester United di Sir Alex Ferguson. Lui, invece, spende quelle cifre per giocatori bravi, ma non campioni. Va contro tutti e contro tutto e, alla fine, ha ragione lui. A maggio il Chelsea è davanti a tutti: 95 punti, 29 vittorie, 8 pareggi e una sola sconfitta, 12 punti di vantaggio sull'Arsenal e una difesa capace di incassare la miseria di 15 gol. Ha vinto lui, ha avuto ragione lui. C'è un però. Drogba non stupisce e segna solo 16 gol in 41 gare con i Blues: un po' pochini. La metà dell'anno precedente a Marsiglia. Il Chelsea, comunque ha vinto e Mourinho punta ancora più in alto: alla Champions ovviamente, mai vinta dalla squadra londinese. La stagione dopo il Chelsea vince nuovamente la Premier League: è un altro dominio, la quota dei 90 punti viene ancora superata, ma il cammino in Europa si interrompe bruscamente agli ottavi contro il Barcellona di Ronaldinho, futuro vincitore. Nella stagione 2006/2007 il titolo di campione d'Inghilterra torna al Manchester United e Mou si deve accontentare delle due coppe nazionali, mentre in Champions arriva ad un soffio dalla finale, venendo eliminato dal Liverpool. In quella stagione Drogba sboccia definitivamente, timbrando il cartellino 33 volte in 60 gare e conquistando il titolo di capocannoniere in Premier. A settembre 2007 il Chelsea e Mourinho interrompono il loro legame, ma la corsa alla Champions League è sempre viva per i Blues del nuovo allenatore Avram Grant. Questa volta Terry & co. arrivano in finale, ma devono arrendersi al Manchester United nello scontro tutto inglese a Mosca. Il bottino di Drogba è povero in campionato: solo 8 reti. In Champions sono 6 in 11 gare invece. Un trend che sarà il marchio di fabbrica dell'ivoriano, che sarà il vero trascinatore della squadra nelle campagne europee.
La stagione 2008/2009 è travagliata per i Blues e Drogba ne risente molto. Gioca 24 partite in Premier e trova il bersaglio grosso solo in 5 occasioni. Lo stesso numero di gol li segna in 10 partite di Champions League, che sarebbero potute essere 11, se un arbitro norvegese non avesse giocato a favore del Barcellona in semifinale. La seconda finale di Champions consecutiva è dunque sfumata. 
Nel 2009 arriva Carlo Ancelotti a Stamford Bridge e Drogba fa la voce grossa. 29 gol in 32 partite di Premier League e nuovo titolo di capocannoniere. La strada in Europa si interrompe già agli ottavi, contro l'Inter dell'ex Mourinho, che vincerà la competizione, coronando quel sogno. E ripetiamo sogno, non ossessione. 
Nel 2012, un Drogba ormai trentaquattrenne, si carica sulle spalle un'intera squadra. Impegna ogni sua singola energia per far fuori qualsiasi formazione gli si presenti davanti tra martedì e mercoledì. La cavalcata verso la finale di Monaco di Baviera inizia male, con un 3-1 a Napoli. Da quel momento in poi, complice l'arrivo di Roberto di Matteo in panchina, il Chelsea cambia e fa fuori i partenopei con una grande rimonta. Poi è il turno del Benfica, prima dell'epica semifinale contro il campioni del Barcellona: ancora loro. Al Bridge decide, stranamente, Drogba. Al Camp Nou, sotto 2-0, i Blues rimontano fino al 2-2. È l'apoteosi. Con un Drogba così, tutto è possibile. La finale dell'Allianz Arena, contro i padroni di casa del Bayern Monaco, è epica. Thomas Mueller porta in vantaggio i suoi al minuto 83, ma a poco dalla fine è ancora Drogba con un poderoso colpo di testa a firmare l'1-1. Ai rigori vince il Chelsea e il rigore decisivo è inutile che stia a dire chi lo segnò.

Dopo quella partita l'ivoriano lasciò i Blues. 341 partite e 157 gol, due titoli di capocannoniere, tre Premier League e quella Champions League che nessuno era mai riuscito a portare dalle parti di Londra. Drogba se n'è andato da leggenda e, ora, i malati di mente sono quelli che andavano contro Mourinho. 
Già, Mourinho. Nel 2013, ai quarti, il Real del portoghese affrontò il Galatasaray di Drogba. Non ci fu storia e i madrileni passarono con un 5-3 totale, ma nel ritorno un meraviglioso gol di tacco dell'attaccante ivoriano fu sufficiente per far capire al mondo intero che lui, l'uomo che aveva portato la Coppa dalle grandi orecchie al Chelsea, non era finito. Anzi. E, forse, l'uomo che più di tutti rimase colpito da quel gesto fu lo stesso Mourinho. E, quasi per un ennesimo scherzo del destino, Drogba vs Mourinho ebbe la sua parte numero tre. Mourinho, nel frattempo, era tornato al Chelsea, per riportare quella coppa a Londra. Agli ottavi c'è subito Chelsea-Gala. Drogba torna a Stamford Bridge due anni dopo. Per i tifosi è come se non fosse mai andato via. Passa il Chelsea, fermato solo in semifinale dal sorprendente Atletico. 
Mourinho, però, ha sempre quello in testa: vincere. La Champions, ovvio. Dopo una stagione "da secondo" al Chelsea, ha deciso che per arrivare fino in fondo serviva una scossa. La scossa si chiama Didier Drogba, l'uomo da 24 milioni. Quello che, al suo "addio" nel 2012, aveva già ampiamente dimostrato di valerne ogni singolo penny. 
Ora che sia Mourinho che Drogba sono tornati a Londra, i tifosi possono festeggiare e sognare. Dopo dieci anni sembra tutto come prima. Sarà il campo a decidere, alla fine, se anche i risultati saranno gli stessi. L'unica cosa sicura, comunque, è che José Mourinho, dopo l'acquisto di Drogba, era tutt'altro che un malato di mente.


sabato 28 giugno 2014

Troppe chiacchiere, tornate a giocare

Quando leggevo dei problemi della Nazionale Italiana dal 1950 al 1966, arco di tempo in cui l'Italia disputò i Mondiali peggiori della sua storia, compresa l'unica edizione in cui fallì la qualificazione (Svezia '58), ho sempre pensato che fossero cose lontane e superate, perché da allora l'Italia è tornata grande: ha vinto un Europeo (nel '68) e due Mondiali, oltre ad aver perso due finali europee e due Mondiali. Invece, le cose sembrano uguali a sessant'anni fa, con i giocatori e l'allenatore impauriti e una classe dirigenziale che non sa da che parte girarsi.
Tra il Mondiale del 2010 e questo, probabilmente è peggio quello sudafricano, se non altro perché l'Italia arrivava da campione del mondo e il girone era più facile. Le cose, però, di sicuro non faranno altro che peggiorare, perché il calcio italiano, tutto il movimento calcistico italiano, ha lacune che stanno venendo a galla solo adesso, se non altro agli occhi dei meno attenti. 
Tra il 1990 e il 2004 l'Italia ha raccolto molto meno di quanto meritava in realtà e questo non fa altro che aumentare la rabbia e la nostalgia verso una Nazionale in cui nessuno si riconosce più, ma che anzi continua a dividere. Tutto e tutti. Giocatori e tifosi. E sapete cosa rimane? Il Costa Rica agli ottavi. Così come la Slovacchia quattro anni fa.
In uno stato completamente confusionale, la Nazionale rischia di ritrovarsi in alto mare per molto tempo. E io, obiettivamente, non so quando si rifaranno vivi i Riva, i Rivera e i Mazzola, protagonisti della rinascita Azzurra tra il 1968 e il 1970. Io non so quando si rivedranno allenatori come Bearzot. E questi sono quelli che hanno vinto, perché in un'Italia in cui nemmeno la Nazionale di Baggio è riuscita a vincere qualcosa, io davvero non capisco come si possa pretendere qualcosa da quella di Balotelli, sempre se Balotelli possa essere accettato come simbolo di una Nazionale che di simboli, in realtà, non ne ha.
Tutte le chiacchiere, poi, che si stanno creando all'interno dello spogliatoio, non fanno altro che confermare i soliti luoghi comuni sull'Italia del calcio: va tutto bene fino a quando si vince, poi ognuno guarda per sé stesso. Ed è per questo che gli Azzurri sono giustamente tornati a casa. Il 2006 è lontano otto anni, ma nessuno sembra volerlo capire. E la finale di Euro 2012, non ha fatto altro che peggiorare le cose. Nemmeno il secco 4-0 contro la Spagna sembra aver fatto aprire gli occhi alla gente. Quest'Italia non vale niente, ma non ci voleva molto a capire. Evidentemente però, per qualcuno sì. Anzi, qualcuno non l'ha ancora capito. E per questo sotto metto una foto in grado di farlo capire, una volta per tutte.


Sedici vanno, sedici restano (parte due)

Dopo aver analizzato le squadre dei primi quattro gironi, è il momento di vedere come sono andate le altre sedici Nazionali impegnate nel resto dei gruppi.


Gruppo E: Francia 7, Svizzera 6, Ecuador 4, Honduras 0
La Francia si riscopre grande nel momento decisivo e, trascinata da un Benzema in stato di grazia, vince facilmente il proprio girone, rifilandone tre all'Honduras e ben cinque ai malcapitati svizzeri. La difesa c'è, il centrocampo pure e l'attacco è sulle spalle dell'attaccante del Real Madrid: questa Francia, dagli ottavi in poi, potrà solo crescere. E contro la Nigeria sarà tutt'altro che un'impresa impossibile.
La Svizzera, di fatto, ottiene il passaggio del turno all'ultimo minuto della prima partita, quando riesce a siglare il 2-1 contro l'Ecuador, squadra avversaria per il secondo posto. Per il resto è tutto scritto, a parte un'incredibile debacle contro la Francia. Il gioco c'è e i giocatori stanno iniziando a giocare meglio. Agli ottavi c'è Messi: sicuri che non si possa vincere in undici contro uno? Evidentemente, quando si tratta della Pulce, sì.

Gruppo F: Argentina 9, Nigeria 4, Bosnia 3, Iran 1
L'Argentina vince in scioltezza il suo gruppo, ma soffre dannatamente dal terzo minuto della prima all'ultimo della terza. La squadra di Sabella non è ancora riuscita ad esprimere una sua vera identità di gioco e si affida alle fiammate di Di Maria e Messi, autore già di quattro reti fondamentali per il passaggio del turno. Forse ciò potrà bastare agli ottavi contro gli elvetici, ma la sensazione è che se si continua così, Belgio e Stati Uniti (i possibili avversari a quarti), possano creare più di qualche grana.
La Nigeria è una delle due squadre del continente nero ancora in corsa. Hanno fatto il loro e sono riusciti a battere ed eliminare una Bosnia al suo esordio Mondiale e forse per questo ancora troppo inesperta. Sono riusciti a dare molte noie all'Argentina e possono contare su delle buone individualità. Partono da sfavoriti contro la Francia, ma provarci non costa nulla.

Gruppo G: Germania 7, Stati Uniti 4, Portogallo 4, Ghana 1
All'inizio di ogni Mondiale, tra le prime quattro candidate al titolo, ci sono sempre i tedeschi. E ci sarà un motivo. La Germania demolisce il Portogallo alla prima partita, prima di allentare un po' la presa contro Ghana e USA, trovando comunque sempre la via della rete e chiudendo il girone a quota sette e con la consapevolezza di poter solo far meglio. E con un Thomas Muller così, Lahm e compagni potrebbero fare tanta strada. Agli ottavi ci sarà l'Algeria, che evoca ricordi amari ai teutonici, ma ancora di più agli africani, che videro sfumare il passaggio del turno per una partita truccata. Trentadue anni dopo è tempo di rivincita, ma fermare questa Germania è pressoché impossibile.
Gli Stati Uniti stupiscono e giocano bene. E fanno fuori il Portogallo di CR7 per differenza reti, ma soprattutto per differenza di tattica e di gioco. Tanti calciatori sconosciuti ai più, provenienti dalla MLS, confermano la crescita del movimento calcistico americano. Adesso c'è il Belgio, una delle squadre più attese alla vigilia. Gli States, però, non partono così indietro, anzi.
Portogallo e Ghana tornano a casa a testa bassa, soprattutto i lusitani, che, pur facendo più punti e battendo le Black Stars, non hanno mai convinto. Proprio mai. Gli africani, invece, sono stati sfortunati, ma in un girone così, tornare a casa ci sta.

Gruppo H: Belgio 9, Algeria 4, Russia 2, Corea del Sud 1
Il Belgio è arrivato in Brasile pieno di fiducia nei proprio mezzi, ma forse aspettano di esplodere nel momento migliore, perché per ora i Red Devils non hanno fatto vedere grandi cose. O meglio, si sono limitati al compitino. Quando hai Hazard, Lukaku, De Bruyne e tutti gli altri in squadra, però, il compitino non è sufficiente, perché la gente vuole altro. I nove punti su nove non glieli toglie nessuno e agli ottavi contro gli USA arrivano da favoriti, sperando finalmente di vedere il Belgio migliore.
L'Algeria è la vera sorpresa. Perde di misura contro il Belgio, ma poi strapazza gli asiatici e pareggia contro la Russia di Capello. Difficile scommettere in un suo passaggio del turno prima del Mondiale, ma ora sono agli ottavi, dove cercheranno la rivincita contro la Germania. L'hanno già battuta, ripetersi è difficile, ma tentare è l'unica cosa da fare.

venerdì 27 giugno 2014

Sedici vanno, sedici restano (parte uno)

Il Mondiale brasiliano (arbitraggi a parte), fino a questo momento ha regalato tanto spettacolo. Neymar e Messi, i giocatori più attesi, non hanno deluso e sono primi nella classifica marcatori a quota quattro gol. Insieme a loro c'è il solito Thomas Muller, trascinatore della Germania e giunto a quota nove gol in nove partite al Mondiale: cecchino. Chi delude invece, è Cristiano Ronaldo, a segno solo nella vittoria inutile del suo Portogallo sul Ghana. Proviamo ora ad analizzare meglio tutti gli otto gironi di quello che, per ora, si sta rivelando un Campionato del Mondo davvero affascinante.



Girone A: Brasile 7, Messico 7, Croazia 3, Camerun 0
Il Brasile vince ma non convince, soprattutto con Croazia e Messico, contro cui arrivano una vittoria sofferta e un pareggio per 0-0. A togliere le castagne dal fuoco ci pensa sempre Neymar, autore di due doppiette contro i croati e il Camerun, ma il gioco non è ancora perfetto. Agli ottavi sfiderà il Cile, una delle squadre più in forma, e sarà già una prova decisiva. Soprattutto per l'attaccante del Barcellona, che dovrà definitamente dimostrare di poter trascinare un intero paese alla conquista del mondo e far così dimenticare il tragico Mondiale del 1950.
Il Messico, dal canto suo, ha conquistato meritatamente la qualificazione agli ottavi, come conferma il fatto di aver ottenuto lo stesso numero di punti della squadra di casa. Nella prima partita contro il Camerun segna più gol di quanti non ne conti il tabellino finale, ma è nel pareggio per 0-0 contro i Verdeoro che capisce di poter andare avanti. Nell'ultimo test contro la Croazia ha vita facile e, dopo 70' di noia, infila tre gol in rapida successione che sanciscono il passaggio del turno. Il 3-1 finale, però, non è sufficiente per la differenza reti e il Tricolor finisce secondo. Agli ottavi, contro l'Olanda, sarà dura, ma non impossibile.

Girone B: Olanda 9, Cile 6, Spagna 3, Australia 0
La Spagna campione di tutti è fuori! Ai gironi. È questa la vera sorpresa del Mondiale 2014. Il ciclo di vittorie è stato spazzato via dall'Olanda e dal Cile. E con merito, senza giustificazioni. Gli Oranje e La Roja (quella sudamericana), hanno giocato alla grande, con grande spirito di sacrificio e con tanta voglia. Voglia e fame che forse sono mancate alla Spagna, che torna giustamente a casa, non prima di battere l'Australia come premio di consolazione. Quasi a dire: ci rivediamo tra due anni agli Europei.
L'Olanda è stata una delle migliori squadre, se non la migliore, in queste prime tre partite. Arrivata come incognita e senza una difesa e un centrocampo degni di nota, van Gaal ha ricostruito un'autentica corazzata sulle macerie delle squadra di Euro 2012, affidando a Van Persie, Robben e Sneijder il gioco offensivo e allargando lo spazio di gioco, con una difesa a cinque senza giocatori eccezionali, ma con tanta voglia di fare ed osare, sbagliando anche a volte. Contro il Messico non sarà una passeggiata, ma con un Robben e un Van Persie così, è tutto più facile. 
Il Cile ha sbalordito tutti alla seconda partita, battendo 2-0 la Spagna e qualificandosi agli ottavi. Unica pecca l'ultima gara, persa con lo stesso punteggio contro un'Olanda sin troppo cinica. Sampaoli ha un gruppo forte e unito, con buone individualità. Il Brasile è l'esame finale: batterlo vorrebbe dire prendere piena coscienza dei proprio mezzi, perdere sarebbe solo la fine di un Mondiale più che positivo. 

Girone C: Colombia 9, Grecia 4, Costa d'Avorio 3, Giappone 1
C come Colombia. Pekerman continua lo splendido percorso iniziato due anni fa, che ha portato i Cafeteros a concludere il girone unico di qualificazione sudamericano al secondo posto, dietro solo all'Argentina e con una difesa capace di incassare solo tredici reti in sedici partite. Lì davanti la sua Nazionale fa paura e ha già segnato nove gol, solo l'Olanda con dieci ha fatto meglio. James Rodriguez ha messo lo zampino in cinque reti, collezionando tre gol e due assist. La vera sorpresa sono loro e nel derby sudamericano contro l'Uruguay partono da favoriti. Sognare traguardi importanti non costa nulla e non è nemmeno impossibile.
La vera delusione è stata la Costa d'Avorio, che non solo aveva i mezzi per andare agli ottavi, ma addirittura per vincere questo girone. Invece Drogba e compagni si sono fatti beffare all'ultimo dalla Grecia, che conquista un'insperata qualificazione e ora, contro il Costa Rica, ha la grande occasione di arrivare ai quarti. Una possibilità, che solo qualche settimana fa, avrebbe fatto ridere chiunque.

Girone D: Costa Rica 7, Uruguay 6, Italia 3, Inghilterra 1
Le ultime due nazioni campioni del mondo fuori entrambe al primo turno. Dopo la Spagna è toccato all'Italia. Senza gioco e senza idee, la squadra di Prandelli riesce a battere solo un'Inghilterra messa ancora peggio. Le due europee escono miseramente, lasciando spazio alle americane. 
La Costa Rica ha stupito tutti, rifilando tre gol all'Uruguay e battendo una modesta Italia per 1-0. Ottavi più che meritati e contro la Grecia ci sarà la possibilità di vivere un sogno.
L'Uruguay stecca l'esordio, ma con il rientro di Suarez doma l'Inghilterra e batte l'Italia in una partita che verrà ricordata solo per il morso del Pistolero e per un arbitraggio non esattamente congruo ad una manifestazione del genere. La Celeste non fa nulla per vincerla, ma l'Italia tutto per perderla. L'1-0 non è meritato, ma è la giusta punizione per un'Italia vuota e priva di fantasia. Cavani & co. contro la Colombia dovranno fare quasi un miracolo.

Agli ottavi quindi si sfideranno Brasile-Cile, Olanda-Messico, Colombia-Uruguay e Costa Rica-Grecia.

giovedì 26 giugno 2014

Ma quale stangata?


Recidivo. Luis Suarez ci casca ancora e morde un altro avversario. È la terza volta. La prima quando era all'Ajax, la seconda al termine della stagione 2012/2013 con il Liverpool e l'ultima adesso, con l'Uruguay contro l'Italia. Al Mondiale. La vetrina più importante. L'occasione, per molti ragazzi sconosciuti, di mettersi in mostra sulla scena internazionale e coronare il sogno di una vita. Sogno che Suarez ha già coronato, diventando uno degli attaccanti più forti del mondo, vincendo il titolo di capocannoniere della Premier League, saltando pure le prime giornate. Già, perché ad inizio campionato non aveva ancora finito di scontare le dieci giornate di squalifica per il morso ad Ivanovic della stagione precedente. Un gesto che aveva indignato tutta l'Inghilterra e che aveva messo in discussione la permanenza di Suarez al Liverpool. Permanenza che sembra non essere sicura neanche quest'anno. Stavolta, però, i motivi erano altri: il Real Madrid bussa insistentemente alla porta dei Reds, con una valanga di soldi pronta. Suarez però in Brasile ci va, gioca e segna. Nell'ultima partita del girone, il fattaccio. Alla Celeste serve una vittoria contro l'Italia, ma il risultato è fisso sullo 0-0. C'è uno scontro in area di rigore. Chiellini e Suarez cadono entrambi per terra. Il difensore della Juventus si tiene la spalla, il Pistolero si tocca i denti. I replay fanno capire meglio: Suarez azzanna Chiellini, talmente forte da farsi egli stesso male. L'arbitro non vede nulla, i giocatori dell'Uruguay tirano su la maglia a Chiellini, in modo da non far vedere i segni. Tutta la squadra e tutta la nazione sta con Suarez, dando del bugiardo al difensore italiano. La prova tv però fa venire a galla verità. Suarez prende nove giornate di squalifica con la Nazionale ed è sospeso per quattro mesi dall'attività agonistica. Rientrerà il 1° novembre. 
Ora, per un giocatore che ha già preso un totale di diciassette giornate (sette la prima e dieci la seconda volta) per lo stesso identico episodio, non è troppo poco? Siamo sicuri che un giocatore così, irritante, falso, razzista e "cannibale", meriti di giocare ancora? Ogni volta ne combina una, ma ogni volta non impara mai. Io spero che questa sia la sua ultima possibilità. Dopodiché dovrebbero fargli prendere le valigie e mandarlo definitivamente via. Persone così fanno solo male al calcio, per quanto brave possano essere.


lunedì 23 giugno 2014

Segna sempre lui...

Sono 15. Un numero pesante, assillante, storico e, in qualche modo, romantico. È il numero dei single: il 15 febbraio, il giorno dopo San Valentino, è la loro festa. E infatti, manco farlo apposta, nella lista dei migliori marcatori dei Mondiali, a quota 15, c'era un solo calciatore. Già, c'era. Adesso non è più così, è stato raggiunto e, forse, potrebbe essere presto superato. Si chiama Luis Nazario de Lima, per tutti Ronaldo. Quello vero, il Fenomeno. Quello delle finte supersoniche che mandavano in bambola tutti i difensori del mondo. A parte Maldini, come dirà lo stesso Ronaldo. Fatto sta che grazie a quelle finte, a quella velocità, a quella potenza fisica e a quell'innato senso del gol, è riuscito a segnarne tante di reti. Ovunque. Dal Brasile all'Italia, dalla Spagna alla Corea del Sud, dall'Olanda al Giappone. Nei vari campionati. Nazionali e Mondiali. Proprio nei Mondiali è riuscito ad infrangere il record di 14 gol di un certo Gerd Müller. Uno in più, giusto il necessario per prendersi lo scettro di migliore e guardare tutti dall'alto. I tedeschi, però, non mollano mai. Si sa. E proprio quando Ronaldo diventava campione del Mondo e capocannoniere di quell'edizione nel 2002, un tedesco di origini polacche, si affacciava al palcoscenico dei più grandi. Giusto l'anno prima, al suo esordio, fece una promessa: entro dieci anni avrebbe battuto il record di gol con la maglia della Nazionale Tedesca. In vetta alla classifica, neanche a dirlo, c'era quel tedesco piccolo e tarchiato, quello dei 14 gol al Mondiale. Nel 2011, il tedesco di origini polacche, non arrivò alle sue 68 reti, ma ci andò davvero vicino. Ci vollero altri tre anni, per superare quel record. Era il 6 giugno 2014 e il gol numero 69, finalmente, arrivò. Dal 2002, però, ne è passato di tempo. Sono passati tre Mondiali, tra l'altro. Nel primo, quello del 2002, Ronaldo e il tedesco di origini polacche si affrontarono in finale. Vinse il primo, con una doppietta e 8 gol per il titolo di capocannoniere. Il secondo si consolò con 5 gol e la consapevolezza che, forse, quella scommessa dell'anno prima non fosse così infondata. Nel 2006, nei Mondiali casalinghi, le marcature furono ancora 5, ma questa volta gli valsero il titolo di miglior goleador e l'entrata nello speciale club dei giocatori in doppia cifra nelle fasi finali del Campionato del Mondo. Nel 2010 la consacrazione definitiva nell'olimpo dei migliori di sempre: altri 4 gol e quota 14 raggiunta. Superati Kocsis, Klinsmann, Pelé e Fontaine. Raggiunto Müller e il record di Ronaldo a meno uno. La grande occasione sarebbero stati i Mondiali brasiliani del 2014. In casa di Ronaldo, promossi dallo stesso Fenomeno. La prima partita, quella contro il Portogallo, la guarda tutta dalla panchina, mentre vede l'erede di Gerd segnare una tripletta. Alla seconda, però, la Germania è in difficoltà e il ct Joachin Löw decide di affidarsi all'esperienza del tedesco di origini polacche, pronto a stabilire un altro record: sono passati infatti pochi giorni dello storico gol numero 69 con la sua Nazionale. Pochi, come i secondi che ci mette per siglare una rete storica, pesante, assillante. 70 con la Germania, 15 nei Mondiali. Ronaldo lo aveva detto, qualche tempo fa: "Klose gioca ancora, vero? Beh, spero che non venga convocato per i Mondiali". Invece è stato convocato e, 36 anni, si è tolto un grandissimo smacco, eguagliando quel tanto agognato record in casa del Fenomeno che, da gran signore, lo ha accolto pubblicamente nel club dei 15. Un club che Klose vuole presto abbondare, per entrare in quello dei 16, dei 17 e via andare, perché Klose vuole entrare nella storia. Ancora più di quanto non ci sia già. E soprattutto perchè si sa che segna sempre lui, segna sempre Miro Klose!

Sono 15 ragazzo!

L'esultanza, però, è sempre quella. Grande Miro!

lunedì 2 giugno 2014

2 giugno 1935: l'altro 5 maggio

Quello Scudetto, gli interisti, lo aspettavano da ormai tredici anni. Dal 1989, quando l'Inter dei record di Giovanni Trapattoni conquistò il campionato con 26 vittorie e sole 2 sconfitte, con il miglior attacco e la miglior difesa. Era l'Inter di Zenga, Bergomi, Brehme, Matthäus, Serena e Diaz. Quel 5 maggio 2002, però, si concluse con le lacrime di Ronaldo. Dopo tredici lunghi anni, l'Inter non era ancora riuscita a vincere il quattordicesimo scudetto della sua storia. Quel 5 maggio 2002, i nerazzurri vennero beffati dalla Juventus, che li scavalcò all'ultima giornata, causa la sconfitta all'Olimpico per 4-2 contro la Lazio. Da prima, la squadra di Cuper finì addirittura terza, superata anche dalla Roma. Quel 5 maggio 2002 la storia dell'Inter cambiò, o meglio, ritornò. Infatti, già nel 1935 la squadra milanese perse il campionato nella stessa maniera. Dopo una lunga lotta a tre con Juventus e Fiorentina, i nerazzurri si ritrovarono primi, insieme ai bianconeri, all'ultima giornata. Nella penultima giornata, la Fiorentina perse e lasciò le due rivali più titolate a contendersi il titolo. Per la chiusura del campionato, erano in programma Fiorentina-Juventus e Lazio-Inter. I bianconeri si imposero 1-0 grazie ad un gol di Ferrari, mentre i nerazzurri persero 4-2, proprio come 67 anni dopo. La Juventus vinse il suo quinto scudetto di fila, un record che resiste ancora oggi, eguagliato solo dal Grande Torino e proprio dall'Inter, che dovette aspettare diciassette anni dopo il 1989. Nel 2006 lo Scudetto fu revocato alla Juve e consegnato all'Inter, che iniziò uno dei migliori cicli di vittorie della sua storia, mentre la società torinese dovette ricominciare dalla Serie B. 
È proprio vero, Juventus-Inter è il derby d'Italia.


giovedì 29 maggio 2014

Matt Busby e il suo Paradiso


Matt Busby è stato un centrocampista che ottenne discreti risultati con le maglie di Manchester City e Liverpool, tra il 1928 e il 1940, prima di dover interrompere la sua carriera a causa della guerra. Con la maglia dei Reds giocò talmente bene da meritarsi un posto nella lista "100 players who shook the Kop", una classifica venuta fuori da un sondaggio fatto tra i tifosi della squadra del Merseyside. Stranamente, però, come allenatore trovò fortuna nella squadra rivale sia del City che del Liverpool: il Manchester United. Fu il manager dei Red Devils per un quarto di secolo, dal 1945 al 1969 e poi ancora nel 1970/71, contribuendo in modo sostanziale al primo ciclo di vittorie di una squadra che sarebbe ben presto diventata uno dei principali club di Inghilterra e d'Europa. Infatti, all'arrivo dello scozzese in panchina, i Red Devils avevano vinto solo due Campionati e una FA Cup, ma la musica sarebbe ben presto cambiata. Dal 1947 al 1949 arrivarono tre secondi posti consecutivi, alle spalle di Liverpool, Arsenal e Portsmouth. Il titolo arriverà nel 1952, con una FA Cup già in bacheca nel 1948. Negli anni seguenti lo United continuerà ad impressionare il pubblico inglese ed europeo e Matt Busby arriverà ad attirare l'attenzione di Santiago Bernabéu. L'allora presidente del Real Madrid - cui verrà dedicato successivamente lo stadio - nel 1956, dopo un altro trionfo di Busby, ma soprattutto dopo che i Blancos avevano appena vinto la prima edizione della Coppa Campioni, offrì al tecnico scozzese l'incarico di allenatore del Real Madrid, "promettendogli il Paradiso". La risposta di Matt Busby fu leggendaria: «Manchester is my heaven». Lo scozzese rimase allo United e quel 6 febbraio del 1958 c'era anche lui sull'aereo che si schiantò a Monaco di Baviera. Morirono otto dei suoi giocatori, otto di quei mitici Busby Babes, che da lui presero il nome. Lui, invece, riuscì a sopravvivere e con pazienza e devozione, ricostruì la squadra, portandola al trionfo in Coppa dei Campioni nel 1968. E poco importa che la squadra che rifiutò, il Real Madrid, vinse poi altre quattro Coppe dei Campioni consecutive negli anni '50. Sir Matt Busby divenne una leggenda del Manchester United e ci volle un altro scozzese, sedici anni dopo il suo addio, per riportare alla gloria i Red Devils. Sir Matt morì nel 1994, riuscendo a vedere lo United campione dopo ventisei anni, quando fu proprio lui a condurre Best, Law e Charlton alla vittoria nel 1967. Nel 1999 lo United e Ferguson vinsero la Champions League nella maniera più incredibile contro il Bayern Monaco. Era il 26 maggio, proprio il giorno in cui Sir Matt avrebbe compiuto 90 anni. Una coincidenza? Forse. Intanto, se il Manchester United è riconosciuto in tutto il mondo come una delle squadre più gloriose del calcio mondiale, lo deve anche a Sir Matt Busby: l'uomo che a Manchester si sentiva in Paradiso.


mercoledì 23 aprile 2014

Però così i dirigenti rovinano le squadre

Ho deciso di parafrasare un mio pensiero del 5 marzo 2013: avevo parlato di come Manchester United-Real Madrid, gara di ritorno degli ottavi di finale di Champions League, fosse stata condizionata dall'arbitro turco Çakır. Ancora non si sapeva, ma sarebbe stata l'ultima partita di Sir Alex Ferguson nella coppa più prestigiosa. Di lì a due mesi, Sir Alex avrebbe lasciato spazio ad un altro allenatore sulla gloriosa panchina del Manchester United, un club che ha sempre avuto pazienza, con tifosi che hanno sempre supportato il proprio tecnico, indifferentemente dai risultati sul campo. Pareva quasi che la squadra inglese fosse rimasta cinquant'anni indietro nel tempo, ferma forse ancora a Matt Busby e a quell'epoca in cui il calcio era uno sport con sani valori morali. Forse è proprio per questo che David Moyes, l'uomo che ha avuto l'ingrato compito di sostituire la leggenda vivente di Ferguson, sembrava l'uomo giusto: anche lui di Glasgow, anche lui da tanti anni nella stessa squadra (undici all'Everton) e anche lui rivale del Liverpool. Il contratto, poi, non lasciava dubbi: sei anni e una fiducia, di conseguenza, incondizionata. Quasi a dire: ti lasciamo carta bianca, prenditi il tuo tempo e poi si vedrà. Così è stato per Sir Alex, così sarebbe stato per Moyes. Già, peccato che il due volte campione d'Europa, arrivò allo United nel 1986, quando il calcio era ancora veramente uno sport e quando loro, i dirigenti, non si lasciavano influenzare dagli altri, i tifosi, e da quelli, i soldi. 
Ventisette anni sono un'eternità e nel frattempo il calcio è completamente cambiato. Un club, però, sembrava non essere cambiato: il Manchester United. È la squadra più titolata di Inghilterra e gran parte dei trofei li deve proprio a Sir Alex Ferguson, un uomo che ha preso un gruppo alla deriva e nella zona retrocessione, portandolo a vincere tutto. Sì, però il primo trofeo è arrivato dopo quattro anni di attesa. La dirigenza, quindi, è stata paziente. Ed è stata ripagata. È per questo che il Manchester United è diventato il Manchester United: con la pazienza, con l'onestà di dire "si può migliorare, ma c'è bisogno di tempo". Un bisogno, quello del tempo, che forse Moyes aveva ancora più di Ferguson. Un bisogno, però, sempre meno soddisfatto nel calcio moderno, dalle società di oggi. È così che gli esoneri aumentano a dismisura e i progetti duraturi nel tempo svaniscono nel nulla, figli di una mentalità ormai troppo arretrata. 

Nell'Enciclopedia Treccani, si trova: capro espiatorio: l'essere animato (animale o uomo), o anche inanimato, capace di accogliere sopra di sé i mali e le colpe della comunità, la quale per questo processo di trasferimento ne viene liberata. Nel calcio il capro espiatorio è sempre lui, l'allenatore. Lo è in una società normale, figuriamoci nel Manchester United del dopo Ferguson. La squadra va male: colpa di Moyes. La squadra vince, ma gioca male: colpa di Moyes. La squadra non gioca: colpa di Moyes. Era sempre la solita storia. Dietro questa stagione assolutamente da dimenticare, invece, la colpa era anche di altri. Sarà pur vero che Moyes non è riuscito a dare la propria impronta, ma è anche vero che alcuni dei giocatori simbolo della scorsa annata, quella della Premier League dominata, erano ormai alla frutta. Già, perché questi erano (e sono, ancora per qualche settimana) i campioni di Inghilterra in carica. Una squadra che ha dominato lo scorso campionato, lasciando le briciole agli altri. La colpa, di conseguenza, viene data all'allenatore. E invece no, perché quando giocatori del calibro di Nemanja Vidic, Rio Ferdinand, Michael Carrick, capiscono, quasi da un giorno all'altro, di non aver più nulla da dare a questa squadra, l'allenatore ha poche colpe. Anzi, l'unico peccato di cui lo si può accusare, è quello di non essere un grandissimo allenatore. Come Vittorio Pozzo, per dirne uno, che alla vigilia dei Mondiali del 1934 riesumò il grande Giampiero Combi da un bar, per portarlo a vincere la rassegna iridata. Ci sta, quindi, non essere un grandissimo, perché uno come Pozzo passa una volta ogni cento anni, figuriamoci uno come Ferguson. Quindi, David Moyes, è solo da applaudire, perché sfido qualsiasi altro tecnico a far meglio di quanto abbia fatto lo scozzese. La qualità della squadra era alta, sia chiaro, il budget per rifondare la squadra pure, ma quando sono gli stessi giocatori ad abbandonarti, qualcosa andrà comunque storto. Soprattutto quando hanno ormai passato gli anni migliori della loro carriera (alcuni) e quando non si impegnano (altri).

Moyes lo sapeva che sarebbe stata una missione impossibile far andare tutto per il verso giusto sin da subito, anche quando la benedizione arrivava direttamente da Sir Alex Ferguson. Uno che è riuscito a comandare non solo la squadra, ma tutta la società. Lui è stato il vero boss del Manchester United. È stato lui a decidere le sorti del club nell'ultimo quarto di secolo. E questa è una cosa che non è più possibile oggigiorno, perché persone così, adesso, sono scomode. Moyes, quindi, è stato quasi illuso dalla società. Illuso da quel contratto pluriennale che gli garantiva una certa serenità. Illuso da un gruppo di tifosi che lo avevo accolto come "The Chosen One", il prescelto. Invece questa cosa gli si è ritorta contro e dopo le prime difficoltà, anziché supportarlo, gli hanno girato le spalle. A lui e alla squadra. "Moyes out" gridavano i "fan". Un coro che è stato l'inno di una stagione tremenda. Un coro, però, non condiviso da chi per lo United farebbe, e ha fatto, di tutto. Gente come Gary Neville, che anche dopo l'esonero ha preso le parti di Moyes. Gente che ha lo United nel sangue e sa cosa voglia dire fare parte del Manchester United, far parte di una società diversa, che ha fatto dell'essere unica il proprio marchio di fabbrica.
È un esonero che fa male: a Moyes, alla squadra, al marchio del club e a tutti quei tifosi che speravano che le cose sarebbero migliorate, con Moyes in panchina. Il Manchester United, ieri, è diventato come tutte le altre squadre. Una squadra normale. Non che ci sia nulla di grave, ma forse era proprio per questo che le persone nel mondo avevano cominciato a supportare questo club. Proprio per il fatto di essere diverso, unico. Proprio per questo ai tifosi non è mai andata bene la dirigenza americana della famiglia Glazer. Proprio per questo è stato fondato il Football Club United of Manchester, una nuova squadra costruita dai tifosi che i Glazer non li digerivano proprio. Sono passati ormai nove anni, era il 2005. Nel frattempo la squadra è cresciuta, sia a livello sportivo che di tifosi. E sono sicuro, che dopo questa brutta faccenda, il numero di fans cresca. Perché dalle parti di Manchester sanno che i gentlemen del calcio non si trattano così. E Moyes fa parte di quel gruppo di gentlemen, ultimamente troppo bistratti, del calcio di adesso. 

Concludo citando Bill Shankly, storico allenatore del Liverpool, giusto per far capire che il calcio, in Inghilterra, lo hanno sempre visto in modo diverso, tutti: «In una squadra di calcio c'è una Santa Trinità: i giocatori, il tecnico e i tifosi. I dirigenti non c'entrano. Loro firmano solo gli assegni.»


martedì 22 aprile 2014

Torres torna Niño nello stadio che lo lanciò

Era l'estate di sette anni fa e alla porta dell'Atletico Madrid bussò il Liverpool. Dall'Inghilterra si erano portati venti milioni di Sterline, più Luis Garcia. I Colchoneros ringraziarono e diedero il via libera al trasferimento Fernando Torres ai Reds. Dopo sette stagioni e una vita per l'Atletico Madrid, El Niño si preparava a lasciare il club che tanto aveva amato. Sin da bambino, sin da quando nella sua classe delle elementari ventiquattro alunni su venticinque tifano Real Madrid. L'altro, ovviamente, era lui, che tifava Atletico. Il suo sogno era giocare e diventare professionista proprio con questa squadra. Un sogno che prese piede nel 1995, quando, undicenne, venne accolto nelle giovanili. Solo cinque anni più tardi avrebbe fatto il suo esordio nella Segunda Division, per poi ottenere la promozione ed esordire nella Liga a soli diciotto anni. Un traguardo importante, ma che fu superato nel 2003, quando divenne capitano, appena diciannovenne. Quella squadra, però, ad un certo punto cominciò a stargli stretta e capì che i trofei sarebbero arrivati solo altrove. Decise di migrare in Inghilterra, al Liverpool. Ben presto divenne uno degli attaccanti più forti del pianeta, raggiungendo quota cinquanta gol in Premier League in appena settantadue presenze, un record per la società. Intanto arriva anche la chiamata per l'Europeo del 2008. Un titolo che manca alla Spagna dal 1964. L'armata di talenti iberica fa fuori tutti e in finale è proprio un gol di Torres a stendere la Germania e a riportare la Spagna sul tetto d'Europa. Il 2008 si chiude in bellezza, con il terzo posto nella classifica del Pallone d'Oro e del FIFA World Player. Al Liverpool continua a segnare con una continuità disarmante, ma i trofei vinti sono ancora zero. Mentre con la Spagna, nel 2010, arriva il titolo di Campione del Mondo, il primo nella storia delle Furie Rosse. Nel gennaio del 2011 arriva l'offerta assurda del Chelsea, che mette sul piatto cinquanta milioni di Sterline per assicurarsi l'attaccante spagnolo. L'avventura con i Blues si rivela un flop totale. Torres non riesce più a giocare ai livelli di Liverpool e Madrid e finisce sempre più nel dimenticatoio. Nel 2012, comunque, arrivano i primi trofei. Prima la FA Cup, ai danni della sua ex squadra, il Liverpool. Due settimane dopo, il Chelsea conquista la prima Champions League della sua storia, battendo il Bayern Monaco ai rigori. In entrambi le occasioni, però, è Didier Drogba l'eroe, mentre per Torres c'è giusto lo spazio per fare qualche comparsa. Agli Europei del 2012 la Spagna si riconferma campione e Torres è capocanonniere del torneo con tre gol, ma la forma migliore è ormai lontana. L'anno dopo si riscatta in Europa League, trascinando i Blues con sei gol in nove partite alla loro prima affermazione nella competizione. In questa stagione la musica non cambia e si conferma ancora al di sotto degli ormai lontani standard di Liverpool. Questa stagione, però, rimarrà nel cuore del Niño, perché proprio stasera tornerà nello stadio da dove era partito: il Vicente Calderon di Madrid, casa dell'Atletico. Il destino, infatti, ha messo difronte la squadra di Simeone alla squadra di Mourinho, rievocando bei ricordi nella mente di Torres. Gli anni ormai sono trenta e quel bambino prodigio è cresciuto, lasciando i prodigi ad altri, ma almeno per una notte Torres tornerà El Niño, quello che fece impazzire i tifosi dei Colchoneros per sette anni. Quello che si sa che, prima o poi, tornerà a casa. In fondo, quello di sette anni fa, è stato solo un arrivederci. 


sabato 19 aprile 2014

La triste parabola di Testa d'oro

All'alba degli anni '50, un uragano travolse l'Europa calcistica. Erano passati ormai quasi vent'anni da quando, dopo il passaggio del fuorigioco da tre a due, Herbert Chapman rivoluzionò per sempre il mondo del calcio, inventando il Sistema. La difesa era così passata da due a tre uomini, proprio a causa del cambiamento della regola del fuorigioco. 
I primi a vincere con questo nuovo modulo, furono, neanche a dirlo, gli uomini di Chapman, che portò l'Arsenal alla vittoria di due titoli inglesi e una FA Cup. Erano gli inizi degli anni '30 e di lì a poco il Sistema si sarebbe espanso nel resto d'Europa. Alcuni, però, rimasero restii al cambio di modulo e preferirono restare fedeli al Metodo; altri, invece, cercarono di combinare i due schemi. Fu il caso di Hugo Meisl, allenatore del Wunderteam austriaco, che rivoluzionò il calcio danubiano e rese grande non solo l'Austria, ma anche la Cecoslovacchia e, soprattutto, l'Ungheria, che seppero interpretare bene le idee austriache. Proprio queste ultime due nazioni, arrivarono in finale al Mondiale del 1934 e del 1938, entrambi vinti dall'Italia di Vittorio Pozzo, affezionato al suo Metodo. Nello Stivale furono più lenti e il cambio di idee arrivò più tardi, giusto il tempo di entrare nella leggenda. Negli anni '40, infatti, il Grande Torino utilizzò proprio il Sistema per ottenere l'egemonia nazionale. Solo la tragedia di Superga riuscì a sconfiggere l'incredibile squadra granata. La fine di qualcosa, però, segna l'inizio di un'altra. Nel 1949 si siede sulla panchina dell'Ungheria Gusztav Sebes: il calcio non sarà più lo stesso. Il primo accorgimento tattico farà scuola: arretra il centravanti e porta le due mezze ali come prime punte. Era nato il centravanti arretrato. Era nata la Grande Ungheria, quella di Ferenc Puskas, Zoltan Czibor, Jozsef Bozsik, Nandor Hidegkuti, Gyula Grosics e, ovviamente, lui Sandor Kocsis. Testa d'oro.


Sandor Kocsis è nato a Budapest il 21 settembre 1929 e già da bambino si capisce una cosa: da grande farà il calciatore. A sedici anni è già titolare nel Ferencvaros, uno dei club di punta ungheresi, con cui vince il campionato nel 1949. Durante gli allenamenti, andava a ribattere di testa i palloni che i suoi compagni calciavano contro il muro: lui saliva altissimo e poi schiacciava proprio dove voleva. Non era altissimo, solo 1,77 m, ma sapeva saltare benissimo e riusciva a rimanere sospeso il tempo che serviva per impattare il pallone e spedirlo in rete. Ecco perché Testa d'oro, perché un colpitore di testa come lui, non si era mai visto.

Rimane al club biancoverde per cinque anni, prima di passare alla Honved nel 1950. La società rossonera aveva appena cambiato nome da Kispest, un sobborgo poco fuori Budapest, ad, appunto, Honved. Era la squadra dell'esercito e, di conseguenza, doveva avere in rosa il meglio del calcio nazionale. Calcio e politica, come sempre, vanno a braccetto e il governo ungherese usò quel gruppo di grandi campioni per dare una bella immagine del paese all'estero, come a dire: guardate come vanno bene le cose qui da noi. Ecco perché nei libri di storia, oltre che per le loro incredibili doti calcistiche, troviamo Ferenc Puskas come il Colonnello Puskas e Joszef Bozsik come il Deputato Bozsik. Tutti i calciatori della Honved ricoprivano cariche importanti ed erano al sicuro da tutto e tutti. Kocsis, però, non era attratto da queste cose e rimase sempre ai margini delle faccende politiche. L'unica cosa di cui si preoccupava era segnare. E ci riusciva con un'incredibile continuità. Nel 1951, 1952 e 1954 vinse il titolo di capocannoniere del campionato ungherese e con la Nazionale non era da meno. 
Fuori dal campo si divertiva con alcool e donne, sempre nella giusta dose, sempre per rimanere in equilibrio tra il campo e la vita reale. Nel rettangolo verde mieteva record, fuori si divertiva, ma sempre nella giusta maniera, mai sopra le righe. La vita di Kocsis era un perfetto connubio tra dovere e piacere. 
Con l'Ungheria vinse le Olimpiadi del 1952 ad Helsinki, dove segnò in tutte le partite tranne che in finale. In totale furono sei i gol, solo uno in meno di Zebec, che si laureò capocannoniere. A quei tempi la squadra di Sebes non perdeva da due anni, per un totale di quindici partite di fila. Nel giro di dieci mesi, sarebbe arrivata anche la Coppa Internazionale 1948-1953. Il 25 novembre 1953 diventano la prima squadtra ad espugnare Wembley, umiliando i maestri del calcio inglesi 6-3. L'Ungheria, dunque, arrivava al Mondiale del 1954 in Svizzera con tutti i favori del pronostico.



In campo nazionale, la Honved domina e Kocsis segna come se non ci fosse un domani. La ciliegina sulla torta deve essere, per forza, la vittoria del Campionato del Mondo. La Polonia rinuncia al turno di qualificazione e permette all'Ungheria di andare in Svizzera senza neanche il minimo sforzo. L'ultima partita prima dell'avventura mondiale, è la rivincita della vittoriosa trasferta di Wembley. Gli inglesi arrivano a Budapest cercando vendetta, ma i magiari non lasciano scampo a nessuno e si prendono gli applausi del mondo intero: finisce 7-1 e Testa d'oro è ancora protagonista con una doppietta. Arrivati in Svizzera, nel girone, spazzano via la Corea del Sud 9-0 (tripletta di Kocsis) e la Germania Ovest (scesa in campo con le seconde linee) 8-3, con Kocsis che si esalta e ne mette dentro quattro. Dopo solo due partite, quindi, Testa d'oro è già a quota sette gol. Nei quarti di finale va in scena la Battaglia di Berna contro il Brasile. Finisce 4-2 per i magiari, grazie ad una doppietta di Kocsis, che risolve la partita a poco dalla fine, siglando il gol della sicurezza. Per completare l'opera, in semifinale battono i campioni in carica dell'Uruguay, ancora 4-2 e ancora con una doppietta di Kocsis, con due gol fondamentali nei tempi supplementari. Testa d'oro è già arrivato ad undici gol, primo di sempre fra i marcatori del Mondiale. Nessuno è più in forma di lui e della sua Ungheria. Per la finale torna anche Puskas, recuperato dopo l'infortunio contro i tedeschi nel girone. E saranno proprio i tedeschi gli avversari di Kocsis e compagni. La finale, visto il risultato precedente, sembra una pura formalità. L'Ungheria è la squadra più in forma del momento, ha espugnato Wembley, ha umiliato i maestri inglesi e, soprattutto, non perde da trentuno partite consecutive. La squadra di Sebes è passata alla storia come Aranycsapat, la squadra d'oro, e questi sono solo alcuni dei motivi per cui possono vantare un simile soprannome. Il loro è un calcio magico, fatto di nuovi tatticismi e grande tecnica individuale, ma anche un notevole affiatamento, che rese quella squadra inarrivabile per tutti. Erano troppo avanti dal punto di vista tattico, tecnico e fisico. Nessuno sarebbe riuscito a fermare la loro cavalcata trionfale verso il tetto del mondo. I problemi, però, erano in agguato e anche se tutto sembrava andare secondo i piani, il tanto atteso lieto fino non sarebbe arrivato. 

Il 4 luglio 1954 si gioca la finale del Campionato Mondiale di calcio tra Ungheria e Germania Ovest. I magiari volevano vincere quell'alloro che nel 1938 gli era sfuggito a causa della classe di Piola. I tedeschi, invece, volevano far dimenticare la brutta sconfitta del girone. Dopo soli 8', però, la squadra di Sebes ha già messo le cose in chiaro: Puskas e Czibor hanno portato la loro squadra sul 2-0. A questo punto, quasi dal nulla, i tedeschi cominciano a cambiare marcia, a correre il doppio, a non essere stanchi. Al 18' Morlock e Rahn hanno pareggiato. I sessantamila del Wankdorfstadion di Berna si guardano esterrefatti, non capiscono cosa stia succedendo. Come è possibile che la squadra più forte del mondo stia pareggiando contro i tedeschi? Intanto i magiari arrancano e Kocsis esce dal gioco. Non tanto perché siano scarsi loro, ma perché i tedeschi sembrano trasformati, quasi rivitalizzati. L'Ungheria comunque ci prova, ma l'arbitro Ling annulla un gol regolare e non concede un rigore che, quantomeno, si poteva dare. I tedeschi osservano senza fare troppi complimenti e a quel punto nemmeno gli ungheresi ci credono più. Al minuto 84 è ancora Rahn a gonfiare la rete. E' 3-2 per la Germania Ovest. A fine partita è Fritz Walter ad alzare la Coppa Rimet. Per gli ungheresi, non solo si interrompe la striscia di imbattibilità, ma finisce anche un sogno. Un sogno spezzato dai tedeschi, su cui grava una pesantissima accusa di doping, più o meno confermata in seguito. Cosa importa a Kocsis di queste cose? Lui era andato in Svizzera per portare a casa il Mondiale, ma sarebbe tornato a casa da secondo. Non importa come, non importa perché. Era arrivata la prima sconfitta, la prima delusione. La vita non sempre è dolce e con il povero Testa d'oro lo sarebbe stata sempre di meno.
Al rientro in Ungheria, Kocsis continua segnare e vincere. Arriva un altro campionato nel 1955, il terzo con la Honved, il quarto in totale. Macina gol anche in Nazionale: dieci in dodici partite nel 1955, sette in nove presenze nel 1956. Qualcosa dentro di lui, però, è cambiato. Non è più felice, sembra triste. La mazzata definitiva arriva negli ottavi di finale di Coppa Campioni del 1956. La Honved sfida l'Athletic Bilbao, perdendo 3-2 la trasferta spagnola. Il ritorno non si giocherà in Ungheria, perché la situazione non è delle migliori. C'è la rivoluzione e il governo non può certo mostrare la faccia brutta del paese nella massima competizione europea. Il ritorno si gioca a Bruxelles, ma Kocsis e compagni pareggiano 3-3 e vengono eliminati. Da Budapest arriva l'ordine di non rientrare e i rossoneri iniziano un lungo tour in giro per l'Europa, per mostrare tutta la loro classe in partite amichevoli. Il 20 dicembre è l'ora del dietrofront, ma molti giocatori disubbidiscono, non tornando a casa. Tra questi c'è anche Kocsis. Testa d'oro torna nella terra che gli regalò la prima tristezza, la Svizzera. Trova posto negli Young Fellows, che non possono tesserarlo perché la Federazione Ungherese lo ha squalificato per un anno. Comincia così il primo momento di vera crisi di Sandor Kocsis. E' costretto a vendere elettrodomestici per riuscire a vivere ed usa gli ultimi soldi per far arrivare nel paese elvetico la sua famiglia. L'alcool non è più uno svizio, ma diventa un vizio e la distruzione arriva dall'interno. Il più grande colpitore di testa del mondo, uno dei più forti attaccanti del panorama calcistico è sull'orlo del declino. Nel 1957 giocherà per una stagione con la squadra svizzera, mostrando ancora tutta la sua classe, ma giocando con la tristezza che solo chi sta vedendo il proprio paese morire può provare. 
Il sogno di alzare la Coppa del Mondo è ormai un ricordo. Nel 1958 arriva, però, la chiamata del Barcellona, in cui già milita il suo ex compagno al Ferencvaros e all'Honved, Zoltan Czibor, l'incredibile ala della Nazionale magiara. Con loro due in attacco, la squadra catalana vince due titoli nel 1959 e nel 1960. Nel 1960 diventano la prima squadra ad eliminare il Grande Real Madrid dalla Coppa Campioni. Il loro cammino prosegue fino alla finale contro il Benfica. Lo stadio evoca tristi ricordi a Kocsis e Czibor. E' il Wankdorf di Berna, quello dove persero sette anni prima la finale del Campionato del Mondo. Questa volta Testa d'oro segna, con la specialità della casa, il colpo di testa. I portoghesi si riscattano subito e in 2' ribaltano tutto. Al 55' arriva anche il 3-1. Kocsis rivive i fantasmi della partita contro la Germania. Il Barcellona ha un moto d'orgoglio e Czibor accorcia le distanze, ma non c'è più nulla da fare. E' la seconda grande sconfitta nella vita di Sandor Kocsis. Gli anni migliori di carriera sono ormai alle spalle, la Nazionale manca dal 1956 e nel 1965 arriva il ritiro. Ai posteri rimangono i 296 gol in 335 presenze nei club, ma soprattutto le 75 reti in 68 partite con la Nazionale Ungherese, di cui oltre la metà segnate di testa, che lo proiettano al primo posto tra i giocatori con la migliore media gol in Nazionale. 


Quella tanta sognata rivincita Mondiale rimane, appunto, un sogno, un pensiero mai del tutto abbandonato, ma che ad un certo punto è stato messo da parte. La vita sa essere crudele e la caduta dalla cima è presto servita. Dopo il 1954, inizia un vortice che risucchia Kocsis in un tunnel da cui non riuscirà a tirarsene fuori. Nella testa sono ancora presenti le malinconiche immagine della finale mondiale persa, a cui si andranno poi ad aggiungere l'esilio dalla sua terra, l'impossibilità di praticare ciò che più ama e l'altra finale contro il Benfica. Tutte tappe dolorose della vita di Testa d'oro, che dopo gli ultimi gol non esultava nemmeno più. In fondo, che motivo c'era? La depressione aveva ormai preso il sopravvento. La distruzione arrivava dall'interno e i sospetti divennero presto realtà. Angoscianti realtà. Non gli era stata data neanche la possibilità di combattere e per questo decise di non farsi sconfiggere un'ultima volta, anticipando tutti sul tempo, come aveva sempre fatto nelle aree di rigore. Il dolore allo stomaco è ogni giorno più forte e gli esami non lasciano scampo. Testa d'oro ha un ultimo guizzo e decide di spiccare il volo più disperato della sua carriera, della sua vita. La stanza dell'ospedale è abbastanza in alto, solo quello è importante. Il giorno è il 22 luglio 1979, Sandor non aveva neanche 50 anni, ma non è importante l'età, quando la vita ti ha già riservato così tante delusioni. Questa volta non ci sono avversari da superare e anticipare, ma solo il tempo che lo stava corrodendo. Testa d'oro spicca il volo, l'ultimo, quello decisivo.