martedì 27 gennaio 2015

Principi non troppo fiabeschi, parte due

L'eleganza è quella raffinatezza che ti fa eccellere su tutti, quella che ti distingue, quella che ti mette su un piedistallo per farti ammirare dagli altri. Meglio di un piedistallo, c'è solo un trono; che però è per i re, per quelli che hanno delle responsabilità e devono caricarsi tutto sulle spalle. Capita, a volte, che arrivino persone in grado di sopportare il peso di tutti, ma che lasciano il trono agli altri. Forse aspettandolo, o forse fregandosene. Sul piedistallo ci finiscono loro e, volendo, per la loro innata eleganza consegnatagli dalla natura, vengono chiamati principi. Salta subito alla mente il legame tra la parola "principe" e il calcio. Questa storia, invece, di immediato e scontato non ha nulla, perché ad unire argentini ed uruguaiani ce ne vuole. E anche tanto.




"Questo è matto". Nella storia del calcio, quando questa frase viene accostata ad un calciatore, molto spesso si tratta di un grande calciatore, perché la pazzia, si sa, va a braccetto con il talento. Genio e follia, si diceva. La follia di lasciare una delle migliori squadre di Francia ed Europa, per approdare in un club molto meno blasonato. Enzo Francescoli, nel 1990, fece il viaggio Marsiglia-Cagliari. Solo andata. Per dimostrare, ancora una volta, quanto lui fosse elegante non solo in campo, ma anche e soprattutto nella vita. Dal titolo di Francia alla lotta per la retrocessione. Tappe intermedie di una carriera che gli ha regalato tante gioie e che lo ha visto ai vertici del calcio sudamericano ed europeo per parecchi anni.

Ora torniamo indietro, perché anche questa storia inizia da Montevideo. Anche questa volta il club di partenza è il Montevideo Wanderers. Tre stagioni, 74 partite e 20 gol bastano per attirare l'attenzione di alcuni club. Tra tutti, spicca il River Plate, verso cui Francescoli nutre una particolare passione. «So che si tratta di un club elegante, i cui tifosi ammettono solo chi sa giocare, chi ha uno stile definito, chi si fa notare sempre per il suo bel calcio.» Appunto, elegante, come Enzo. Lo vedi danzare per il campo, in attesa di piazzare il colpo decisivo, con una compostezza che fa innamorare chiunque lo guardi. El Principe, mai come in questo caso, è un soprannome azzeccatissimo. 
Prima di firmare per la squadra argentina, ha il tempo di giocare e vincere la Copa America con l'Uruguay. Apre le marcature nella finale d'andata contro il Brasile e la Celeste conquisterà così il suo dodicesimo titolo, a sedici anni di distanza dall'ultimo. Con Los Millionarios, invece, si scopre grande bomber. Nei suoi primi tre anni mette a segno 68 gol, vincendo il campionato argentino nel 1985/86. Dopo un Mondiale in Messico disastroso, decide di approdare in Europa, per completare il suo bagaglio tecnico, ma in particolare tattico. Arriva al Racing Club di Parigi, dove segna sì con una buona continuità, ma rimane sempre invischiato in campionati non esaltanti. In tre stagioni, la migliore è la seconda, con un settimo posto, mentre nell'ultima si rischierà la retrocessione. Nel frattempo, riuscì anche a rivincere la Copa America nel 1987. Nel 1989, quindi, cambia nuovamente aria e si sposta nel sud della Francia, a Marsiglia per la precisione. Segna 11 volte in 28 occasioni, vince il campionato e raggiunge le semifinali di Coppa Campioni. La squadra della Provenza è senza dubbio tra le migliori in circolazione e Francescoli è tra i migliori calciatori. Poi, la svolta. Tra gli anni '80 e '90, per dimostrare di essere davvero un calciatore bravo, dovevi affrontare un importante banco di prova: quello della Serie A. Enzo lo sa e per questo capisce che è arrivato il momento di trasferirsi in Italia. Non importa dove. Firma quindi con il Cagliari, dove rimarrà per tre anni, diventando un idolo dei tifosi. Nella prima stagione non ingrana subito, ma poi si carica sulle spalle la squadra, conducendola alla salvezza. Arretra anche la sua posizione, infatti le statistiche ne risentono, ma diventa un uomo chiave della squadra. Nel 1992/93, il Cagliari arriva sesto, condotto da un meraviglioso Francescoli, autore di 7 gol e di tante altre giocate e assist. Alla fine, così matto non lo è stato. Poi, per non lasciarsi mancare niente, si accasa al Torino, in quella che è sicuramente la sua peggiore stagione. Pochi gol e una forma fisica lontana parente di quella vista a Cagliari. Nel 1994, dopo solo una stagione, torna in Argentina, al River Plate, il club dei suoi sogni. Ma lo fa quasi da ex giocatore, quasi fosse un pre-pensionamento. A 33 anni, invece, fa vedere a tutti il sangue blu, quello della regalità, dell'eleganza, perché lui è El Principe. Segna 23 reti in 38 partite stagionali: El Principe è tornato. Nel 1995, vince la sua terza Copa America, da protagonista, con il titolo di miglior giocatore del torneo. Nello stesso anno viene votato miglior giocatore d'argentina, a dieci anni dall'ultima volta, e anche miglior giocatore del Sud America, undici anni dopo. Nelle tre stagioni dal 1994 al 1997, vincerà altre tre Apertura e un Clausura. Nel 1996 arriverà la Copa Libertadores, l'ultimo trofeo importante di una carriera che lo ha visto protagonista in Argentina, Francia e Italia. Oltre, ovviamente, che con l'Uruguay. Nel 1997 si ritirerà, lasciando un grande vuoto nel calcio uruguagio, argentino e mondiale. Ma sarà sempre ricordato come El Principe: classe ed eleganza made in Montevideo.

lunedì 26 gennaio 2015

Alla fine son 200

Senza i momenti di pausa e riflessione, non penso che la vita sarebbe la stessa. Servono. Non c'è nient'altro da aggiungere: servono. Riesci a rimetterti a posto con te stesso, continuando sempre dritto per la tua strada. E allora, siccome i momenti di pausa nascono quando si fa effettivamente qualcosa, vi propongo questa storia, in modo da poter capire meglio il perché e il come io abbia deciso di imboccare questa strada. 

Ci sono delle tappe, nella vita di ognuno di noi, senza le quali non sapremmo nemmeno chi siamo e cosa vogliamo.


Lui è Adrian Mutu. È un ex giovane stella rumena, mai del tutto esplosa, che ha vissuto dei bei momenti nel campionato italiano, in particolare con le maglie di Parma e Fiorentina. In mezzo alla sua avventura italiana, trovò anche spazio per migrare in Inghilterra, al Chelsea. Giocò la stagione 2003/2004 e all'inizio di quella successiva venne trovato positivo alla cocaina. La società inglese lo licenziò, la FA lo multò con 20.000£ e ricevette una squalifica di sette mesi. Si rifece, tornando in Italia, alla Juventus, prima di riscoprirsi davvero grande alla Fiorentina. 
Qualche anno dopo, nel 2007, Francesco Flachi venne condannato a ventiquattro mesi di squalifica sempre per cocaina. Tornò nel 2009, ma il 19 dicembre dello stesso anno venne ancora trovato positivo. Stavolta i mesi di squalifica furono dodici e segnarono, di fatto, la fine della sua carriera.
Qualche giorno dopo, nel gennaio del 2010, Mutu venne ancora accusato di assumere sostanze dopanti e venne squalificato per altri nove mesi.
Al rientro dalla vacanze di Natale di terza media, la prof. di italiano ci assegnò un tema in classe. Io, grande amante di calcio, scrissi qualcosa su Mutu e Flachi e sulle loro carriere rovinate da queste sostanze. Avevo sempre preso 6 nei temi. Sempre. Quando la prof. consegnò i compiti, il mio fu uno dei più grandi sorrisi mai visti: presi 8! Il mio primo 8 in un tema. Lì, in quel gennaio 2010, iniziai a capire che forse il calcio poteva, anzi doveva, far parte della mia vita. 

Sono passati ormai cinque anni da quel giorno. Cinque anni completamente dedicati al calcio e all'approfondimento della mia passione. Poi, un giorno, qualcuno mi convinse a creare questo blog. E lo creai. Magari, sì, un po' per scherzo, per mettermi alla prova, senza sapere che ci avrei dedicato anima e corpo ogni giorno. E allora sì, che dopo un po', hai bisogno di una pausa, di un attimo di riflessione. Ti rimetti insieme e pensi al da farsi. Ci ragioni e poi dici che no, di smettere non se ne parla. Non se ne parla perché, in fondo, sarò pure un ragazzo timido e modesto, ma non sono di certo scemo, e i complimenti che mi fate li vedo, li sento, ma soprattutto li apprezzo; è grazie a voi che è nato questo blog ed è sempre grazie a voi che continua. Questo è il mio duecentesimo post, un bel traguardo, che senza quelle pause sarebbe potuto essere molto superiore; ma non sono una macchina, un computer che scrive tanto per. Tutti, me compreso, a volte, decidono di fermarsi. La differenza sta nello sfruttare a pieno i momenti di rilassatezza, per imparare sempre cose nuove. Le cose che scrivo qui, che dico, che racconto. Ho diciotto anni, gli ultimi sette li ho passati dedicandomi completamente al calcio. E sono davvero contento che, alla fine, questo non si sia rivelato tempo sprecato. Perché ad ogni "bravo", "hai talento", "sei forte", non nego di sentirmi orgoglioso di me stesso e questo è possibile solo grazie a voi. 

Grazie, Tuc

domenica 25 gennaio 2015

L'altra Germania Ovest-Ungheria

È evidente che la Germania avrà sempre a che fare con Austria e Polonia, due nazioni tristemente legate ai tedeschi per i motivi che voi tutti sapete. Il filo conduttore di tutto è l'Ungheria, la Grande Ungheria per essere precisi. Ci sono due partite da ricordare di quella Nazionale praticamente perfetta, due incontri spesso dimenticati: l'ultima sconfitta prima della serie di 31 risultati utili, e la prima partita di quella serie. Indovinate un po' quali furono le avversarie. Ovviamente Austria e Polonia. Il 14 maggio 1950, al Prater di Vienna - non ancora intitolato ad Ernst Happel, uno che non ha bisogno di presentazioni - andò in scena una partita che si concluse 5-3 per i padroni di casa, che interruppero quindi il filotto di cinque vittorie consecutive dei magiari. Puskas e Kocsis, i due bomber di quella squadra, andarono entrambi a segno. Così come Gyula Szilagy, autore poi di una tripletta nel match del 4 giugno in Polonia, in cui l'Ungheria si impose per 5-2, grazie anche a un doppio Puskas. Lì, allo Stadio Wojska Polskiego, era nato il mito della Squadra d'oro. 


Ora, inutile che vi stia a raccontare di tutti i campioni che facevano parte di quella Nazionale, del suo allenatore, dei risultati che ottennero, della doppia umiliazione che rifilarono agli inglesi, della marcia perfetta dal 1950 al 1954 e del Mondiale perso nella maniera in cui tutti sapete. No. Voglio mantenermi in una posizione centrale e analizzare una delle partite più controverse di quel Mondiale. Ungheria-Germania Ovest 8-3. È il 20 giugno del 1954, i magiari non perdono da ormai più di quattro anni e hanno esordito al Mondiale con un sonoro 9-0 sulla malcapitata Corea del Sud. La Germania Ovest, dal canto suo, è una squadra abbastanza indecifrabile. Può contare sulla classe di Fritz Walter, a cui si affiancano suo fratello Ottmar, Werner Kohlmeyer, Werner Liebrich e Horst Eckle, a formare lo zoccolo del Kaiserslautern, oltre a Hans Schäfer, Helmut Rahn e Max Morlock. È una bella squadra, al Mondiale però ci sono anche Uruguay, Brasile, Jugoslavia. Clienti scomodi, forse messi meglio della Mannschaft. Fatto sta che l'esordio nelle qualificazioni è tutt'altro che da ricordare: un 1-1 in terra norvegese, strappato grazie al capitano Fritz Walter. La seconda ed ultima partita d'andata (gironcino a tre squadre) meriterebbe una storia a parte. A Stoccarda si gioca uno strano derby tedesco: Germania Ovest-Saar. Finisce 3-0, senza che vi stia a raccontare la parte politica antecedente a questo incontro. Il 22 novembre 1953, la Germania Ovest si avvicina alla qualificazione grazie a un 5-1 senza repliche sulla malcapitata Norvegia. Segnano praticamente tutti: i fratelli Walter, Morlock e Rahn. Il 28 marzo 1954, il Mondiale il pass Mondiale viene conquistato con un 3-1 "esterno" a Saarbrucken. 

Ora facciamo un passo indietro, piccolo, perché già sto divagando troppo. Ho parlato dei giocatori, ho detto di come sono arrivati al Mondiale. Sì, ma chi era il trainer di quella Mannschaft? Anche lui meriterebbe una grande parentesi, ma mi limito a dire che è stato il vice del Dottor Otto Nerz, che condusse la Germania al terzo posto nei Mondiali del 1934. A seguito di una brutta Olimpiade nel 1936, venne allontanato e allora prese il posto il suo secondo: Josef detto Sepp Herberger. Un personaggio molto amato, capace di condurre la Nazionale per 28 anni, fino al 1964, quando lasciò la panchina anch'egli al suo vice, tale Helmut Schön, il quale vivrà altri bei momenti. A proposito, sulla panchina della Saar, per quelle qualificazioni, c'era proprio lui. Eh, il destino.

Francobollo raffigurante Herberger (sinistra) e Schön (destra)
Va bene, però ora sto uscendo fuori dal discorso; torniamo a noi. Torniamo a quel 20 giugno 1954. I magiari hanno già fatto a fettine i simpatici coreani, la squadra di Herberger ha regolato la Turchia. Secondo la strana formula di questo torneo, chi vince si sarebbe garantita l'accesso ai quarti, perché non c'era bisogno di affrontare tutte le squadre - io, e non solo, stento ancora a capire il senso di quel formato. In ogni caso, la partita è senza storia: Kocsis ne mette dentro addirittura quattro e i magiari vincono 8-3. È, forse, la prova di forza più incoraggiante per l'Ungheria, dopo il doppio successo contro gli inglesi. È la dimostrazione che questo Mondiale è loro, se ancora ci fossero dubbi. Da qualche parte, però, Sepp Herberger sta ridendo sotto i baffi che non ha. Sì, perché a leggere la formazione di quella Germania Ovest, qualcosa non torna. Certo, ci son dentro le riserve. Ma perché mettere le seconde linee contro la squadra più forte del mondo? Sempre per quello strano motivo dell'insolita formula: Herberger sa che la Turchia vincerà contro la Corea del Sud e quindi dovrà giocare lo spareggio contro di loro. E giocare contro una squadra che conosci e che hai già battuto, è quasi una passeggiata. Quindi fuori quelli bravi, mettiamoli a riposo, e dentro gli altri, che comunque faranno stancare un pochino gli ungheresi. A Liebrich viene affidato un ruolo fondamentale: «Lo Vedi il 10?». «Sì». «Bene, non farmelo più vedere». Deve essere andata più o meno così quella conversazione tra Liebrich ed Herberger. E infatti, sul 6-1, il tedesco entra direttamente sulla caviglia del povero Puskas. Fuori. E salterà tutte le altre partite, fino alla finale, che giocherà comunque malconcio. «Eh, bravi, bravi, vincete pure questa, che io i conti li so fare bene. E so anche che si fanno alla fine». Il trainer tedesco è furbo e nell'altra partita, Suat e Burhan stanno seppellendo i coreani. Ungheria ai quarti, Germania Ovest e Turchia allo spareggio. Nonostante la partita sia abbastanza equilibrata, ai tedeschi va tutto bene e ne mettono dentro 7. I turchi solo 2. Ai quarti, ovviamente, ci va la formazione capitanata da Fritz Walter. Il piano di Herbeger ha funzionato a meraviglia: hanno passato il turno senza particolari patemi, non sono stanchi, hanno pompato ancora di più il mito dell'Aranycsapat, privandola pure del suo condottiero. I conti si fanno alla fine, lo sanno tutti. Sepp meglio di tutti, perché già a partire dai quarti, quella squadra indecifrabile assume una propria identità e per gli altri saranno solo dolori. Il finale, ovviamente, lo sapete. Ma quella è un'altra storia. Questa, invece, è la storia dell'altra Germania Ovest-Ungheria, la vera partita in cui la Mannschaft vinse il Mondiale.

sabato 24 gennaio 2015

Toreri sfortunati

C'è una vecchia barzelletta che fa più o meno così «Due amici si incontrano ed uno fa all'altro: "Sai, sono stato in Spagna, sono andato ad una corrida e poi al ristorante ed ho ordinato le Palles del Vinto. Buonissime, sono due enormi palle di carne, una delizia unica dovresti provarle!" L'amico, convinto, va in Spagna e si reca al ristorante citatogli dall'amico. Si siede ed ordina le Palles del Vinto. Poco dopo torna il cameriere con un piatto con sopra due palline bianche, piccole e secche. Allora chiede al cameriere: "Scusi, ma mi avevano detto che questo piatto era con due grosse e succulente palle di carne." Ed il cameriere risponde: "Certo, ma non sempre vince el torero!"»

Già, non sempre va bene ai toreri. A volte, per esempio, può capitare che vengano colpiti in pieno dalle corna del toro; e lì sì che son dolori. La forza dei bravi toreri sta, innanzitutto, nel non farsi colpire, ma anche nel riuscire a rialzarsi dopo un colpo, tornando più forti di prima. Ovvio, quando ci son di mezzo i tori, è difficile, ma quando si tratta di calcio, la storia è più semplice. Di toreri, il football, ne ha qualcuno, il più famoso è Mario Gomez, che però sembra essere stato irreparabilmente colpito da un toro che sfrecciava a tutta velocità verso il suo ginocchio. Morale: lesione parziale del legamento, a cui si aggiungerà poi un'infiammazione al tendine che lo terrà fuori dai campi per circa cinque mesi. Era il 15 settembre 2013 e, dopo un avvio positivo di stagione con la maglia della Fiorentina, El Torero Gomez stava per iniziare un lungo calvario che lo avrebbe portato ad un drastico ridimensionamento delle sue statistiche. Infatti, al suo arrivo a Firenze, Gomez era campione di tutto con il Bayern e segnava a ripetizione. I numeri parlano per lui: 138 gol in 236 partite di Bundesliga con le maglie di Stoccarda e Bayern Monaco, per una media di 0,58. Nella Top 20 dei marcatori del campionato tedesco, solo Dieter Muller (0,58), Jupp Heynckes (0,60), Horst Hrubesch (0,61) e il solito Gerd Muller (0,85) possono vantare una media pari o migliore. Nell'ultima stagione al Bayern, complice qualche infortunio, non giocò alcune partite, riuscendo comunque a raccogliere 32 presenze, mettendo a segno ben 19 gol. Nelle due annate precedenti, centrò la porta per un totale di 80 volte in appena 92 partite, con l'incredibile score di 21 reti in sole 20 partite di Champions League dal 2010 al 2012. Al suo addio dai bavaresi, aveva segnato 113 gol in 174 gare: cifre da grande attaccante. In tutto ciò, anche in campo internazionale se l'è cavata bene con la maglia della Germania: 25 gol tra il 2007 e il 2012, con il titolo di capocannoniere ex aequo ad Euro 2012. Insomma, quando la Fiorentina comprò Gomez, pensava di aver concluso un grande affare. Tutti lo pensavano. Ed El Torero lo stava dimostrando: dopo l'esordio in Europa League contro i Grasshopper, Gomez ci mette solo due giornate per trovare la prima gioia in Serie A. Anzi, le prime gioie, dato che a Marassi contro il Genoa arrivò una doppietta. Due settimane dopo, però, contro il Cagliari, successe quello che ho scritto prima. Un grave infortunio che ha impedito a Gomez di giocare quasi tutta la stagione. Un toro che il torero non è stato in grado di matare. SuperMario, però, non è un torero normale, non si arrende alla prima difficoltà e cerca sempre di tornare, sempre più forte di prima. Il 13 marzo 2014, quasi un mese dopo il suo rientro, segna in Europa League contro la Juventus. Siccome la fortuna non pare essere amica di Gomez, dieci giorni dopo subisce un nuovo infortunio. Lui però si fa forza, ma soprattutto, la società e i tifosi sono dalla sua parte. Lo hanno aspettato per cinque mesi e continueranno ad aspettarlo. 
La nuova stagione doveva essere quella della rinascita. Invece, il 21 settembre, arriva un altro stop, questa volta di due mesi. Quando torna ha ancora tutta la fiducia dell'ambiente, ma è sempre più preso di mira dalla stampa e dalla critica. Segna contro il Cagliari, ma non è sufficiente. Le prove negative continuano ad essere troppe e la forma migliore è ormai un triste ricordo. Poi, però, arriva la scintilla che potrebbe riaccendere il campione: una doppietta in Coppa Italia contro l'Atalanta, a gennaio, a due mesi dall'ultimo gol. El Torero ha un'altra chance, un'altra possibilità per dimostrare ancora di essere un grande attaccante. L'ultima, forse. L'ultima occasione per poter affermare che lui è Mario Gomez, El Torero, e che non si darà mai per vinto, perché questo è il momento di prendere il toro per le corna e ricominciare a segnare a ripetizione. L'ultima opportunità per mandare in porta le Palles del Vinto, che ovviamente non sarà lui.


mercoledì 21 gennaio 2015

Dieci anni per diventare il migliore

«Cercando il buono di questa spedizione non posso non sottolineare che è in corso un profondo rinnovamento della squadra. Nel secondo tempo contro la Repubblica Ceca hanno giocato quattro Under 21, sono loro che rappresentano il futuro.» Prendete queste parole e stampatele nella vostra mente, perché quel giorno da queste poche righe è nata una squadra che avrebbe cancellato due delle più grandi figuracce della storia tedesca.

Siamo a Lisbona, il 23 giugno 2004, in occasioni degli Europei organizzati dal Portogallo. La Germania di Rudi Völler arriva all'ultima partita del girone contro la Repubblica Ceca con la consapevolezza di dover vincere a tutti i costi. I cechi, a quota 6 punti e già qualificati, schierano addirittura le seconde linee, la Mannschaft, invece, di punti ne ha 2 e sa che l'Olanda, a 1, batterà sicuramente la Lettonia: è una partita da non perdere, dentro o fuori. Aspetta, ma vuol dire che la Germania non solo rischia di non qualificarsi al secondo turno, ma anche che sarebbe la seconda volta consecutiva. Infatti ad Euro 2000, nell'ultimo e decisivo match, il Portogallo, anche allora già qualificato e rimaneggiato, sconfisse i campioni in carica con un secco 3-0, grazie ad una tripletta di Sérgio Conceição. Nel 2004, invece, le cose sembravano essersi messe per il verso giusto: dopo 21' Ballack aveva fatto 1-0, ma già al 30' Heinz aveva pareggiato i conti. Dopo l'1-1 i tedeschi si sciolsero, non riuscendo più a giocare con la giusta convinzione. Le occasioni non mancarono, ma non furono mai concretizzate. Poi, al '76, Milan Baros porta in vantaggio i cechi, sancendo l'eliminazione della Germania. Tra gli undici che finirono la partita con la Repubblica Ceca, erano presenti anche tre ragazzini che rispondono al nome di: Philipp Lahm, Bastian Schweinsteiger e Lukas Podolski. Völler, in conferenza stampa, si riferisce a loro, perché sa che sono il futuro e che è da lì che la Germania tornerà grande. Anche perché, nell'arco di ventiquattro mesi, ci sarà il Mondiale casalingo.


Ovvio, il Mondiale è bello, però bisogna anche avere una squadra all'altezza. Stadi ed organizzazione passano come "no problem", tanto loro sono tedeschi, figuriamoci se questi son fattori che possono dar fastidio. Rimane una squadra che ha fallito due volte due gli Europei e che ha conquistato un secondo posto in Corea e Giappone che non è sufficiente per mascherare un'involuzione abbastanza rapida. Il primo passo lo compie Völler, rassegnando le dimissioni subito dopo l'Europeo. Sulla panchina della Germania arriva il signor Jürgen Klinsmann, al suo primo incarico dopo il ritiro. Klinsmann, qualche anno prima, aveva conosciuto un giovane allenatore durante un corso che lo aveva colpito. E, a giudicare da quello che gli promise, lo colpì molto. Furono sufficienti poche parole «Sai che tu mi piaci? Al primo incarico serio che avrò, tu mi farai da vice.» E l'ex giocatore dell'Inter fu di parola, perché nel 2004, alla sua prima esperienza da allenatore, si portò quello lì come assistente. Klinsmann, a questo punto, ha in mente solo il Mondiale casalingo. In due anni cambiò tutto, trasformando una squadra vecchia e demotivata, in un gruppo di giovani pronti a spaccare il mondo. E lo fece contro tutto e contro tutti. Costa Rica, Polonia ed Ecuador furono le vittime del girone, Svezia e Argentina quelle della fase ad eliminazione diretta. Poi, in semifinale, arrivano loro, arrivano gli italiani. Se c'è una squadra che i tedeschi non vorrebbero mai affrontare, quella è sicuramente l'Italia. Perdono sempre e le statistiche non mentono. Quando i tiri di Gilardino e Zambrotta si infrangono, rispettivamente, sul palo e sulla traversa, la speranza sale e la convinzione di passare in finale cresce. Poi Grosso tira fuori il gol della vita e Del Piero completa l'opera. L'Italia passa, ma la Germania c'è, la mentalità c'è, i giocatori ci sono e ci saranno, perché sono giovani. Quello che forse ci ha visto più lungo di tutti è Klinsmann, perché non solo ha investito per il futuro sul campo, ma anche sulla panchina. Dopo la vittoria nella finalina contro il Portogallo, lascia il posto da c.t. e gli subentra il suo assistente, quello che lo colpì molto. Di nome fa Joachim e di cognome Löw. E ora la risalita della Germania ai vertici del calcio europeo e Mondiale è tutta nella sue mani.


Ma chi è Joachim Löw? Ha giocato come attaccante tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '90 con fortune alterne tra Bundes e Zweite Liga. Da allenatore fa tanta gavetta e ottiene qualche gioia con lo Stoccarda sul finire del millennio. La grande occasione gli si presenta quando Klinsmann lo chiama come seconda. Lui non se la lascia sfuggire ed inizia ad apprendere per diventare il migliore e portare la Germania sul tetto del mondo. D'ora in poi sarà per tutti "Jogi".

Löw capisce che non deve smuovere troppo le carte in tavola, per questo si affida sempre ad una mentalità spiccatamente offensiva. Come vice sceglie Hans-Dieter Flick, quattro volte campione di Germania con il Bayern Monaco; tenete a mente il personaggio, perché tornerà utile. L'avvio è sfavillante: ne dà tre alla Svezia in amichevole, poi colleziona tre successi di fila nelle qualificazioni europee, tra cui un 13-0 esterno in casa del solito San Marino. Con quattro vittorie consecutive, è il miglior esordio di un tecnico tedesco sulla panchina della Nazionale. Poi arriva un clamoroso pareggio per 1-1 in terra cipriota, ma è solo un piccolo incidente di percorso. La Germania concluderà il girone al secondo posto con 8 vittorie, 3 pareggi e una sola sconfitta, ormai a giochi fatti, in casa contro la Repubblica Ceca. Capocannoniere del girone di qualificazione quel Lukas Podolski eletto miglior giovane del Mondiale tedesco e sempre più leader della nuova Mannschaft. La squadra c'è e andrà in Austria e Svizzera con un solo obiettivo: vincere. 


L'esordio è dei migliori: doppietta del solito Podolski e Polonia (terra d'origine di Lukas) regolata. Poi, nella seconda partita, c'è la Croazia. Löw lascia gli stessi undici, perché squadra che vince non si cambia. Sì, ma con i croati c'è ancora un conto aperto, da quasi dieci anni. Era il 4 luglio 1998 e si giocavano i quarti di finale del Mondiale francese: le Fiamme, così come vengono chiamati i croati, stesero la Germania campione d'Europa con un secco 3-0 e passarono in semifinale. Stavolta l'importanza era minore, ma vincere avrebbe in parte cancellato quella batosta. Invece no: segnano Srna e Olic, uno che giocava all'Amburgo in quel periodo, e il gol finale di Podolski si rivela inutile. Croazia-Germania 2-1. E adesso no, adesso non si più perdere, non si può uscire per la terza volta di fila nella fase a girone. L'ultimo avversario rievoca ancora la Seconda Guerra Mondiale, dopo il match con la Polonia: sono i padroni di casa dell'Austria e per andare avanti hanno bisogno di una vittoria. Non succede, ma se succede... Jogi mette Friedrich per Jansen, il resto è tutto uguale. La gara viene decisa in apertura di secondo tempo da Ballack, capitano e anima della squadra. La Germania passa come seconda e tra Portogallo, Olanda e Spagna, pesca i lusitani nei quarti. Ora occorre fare un passo indietro nella storia e tornare al Mondiale 2006. La finale terzo/quarto posto, come già detto, fu tra tedeschi e portoghesi. Finì 3-1 per i padroni di casa con Schweinsteiger, il ragazzino di Euro 2004, autore di una doppietta. Nel 2008, il giocatore del Bayern si appresta a disputare la prima partita da titolare nella competizione proprio contro il Portogallo. E segna l'1-0. Poi la Germania fa 2-0, Nuno Gomes il 2-1, Ballack il 3-1 e infine Postiga il 3-2, inutile, perché sancisce l'eliminazione dei suoi. Il secondo gol tedesco lo segna un attaccante che in questa storia è stato praticamente sempre presente, sin dal Mondiale nippo-coreano, ma che non ha ancora avuto l'onore di essere nominato. Come Podolski è di origine polacca e come lui gioca nel Bayern Monaco: si tratta di Miroslav Klose, anche questo tenetelo a mente. Tutto bello fino a questo punto, ma il difficile arriva adesso. Le semifinali sono Russia-Spagna e Germania-Turchia. Alt! Germania-Turchia? A livello giovanile, sono sicuro, qualche nazionale tedesco si sarà posto la domanda «E ora per chi tifo?». Già, perché negli ultimi anni sono arrivati tanti turchi in Germania e oltre al kebab, hanno portato anche qualche giocatore buono. Nel 2008 la faccenda rimane a livello giovanile, ma ancora per poco e Löw sa che questa è una Nazionale, ma prima ancora una Nazione, sempre più cosmopolita e multietnica. Appunto, Löw. Il suo sogno di vincere l'Europeo è ancora in piedi e marcia verso la giusta direzione, le cose filano lisce e questi turchi non dovrebbero essere un grosso disturbo. Sì, ma adesso bisogna giocarla questa semifinale. È Boral a spaventare i tedeschi, che poi riescono a ribaltare nuovamente tutto grazie a Schweinsteiger e Klose. La doccia fredda arriva a 4' dalla fine: si chiama Semih Senturk e si legge 2-2. Poi, siccome non c'è due senza tre, spunta l'ultimo di quei tre under 21 di Euro 2004. È nato a Monaco di Baviera l'11 novembre 1983 e nelle sue prime stagioni da professionista ha avuto un rendimento pazzesco: si chiama Philipp Lahm, ma si legge finale. Dopo due Europei disastrosi, la Germania torna in finale e lo deve grazie a due uomini: il primo è Klinsmann, il secondo ovviamente è Low, che senza il primo non sarebbe lì, ma che di suo ce ne ha messo. E anche tanto. La finale si gioca all'Ernst Happel Stadion, dedicato ad un allenatore che in Germania ha lasciato qualcosina. Dall'altra parte ci sono gli spagnoli: hanno regolato 4-1 la Russia, poi si sono salvati negli ultimi minuti con Svezia e Grecia, con un doppio 2-1. Ai quarti hanno eliminato l'Italia ai rigori e in semi hanno ridimostrato la propria superiorità con la Russia (3-0). Non sono ancora le Furie Rosse che domineranno incontrastate, ma è da lì che tutto è nato. Anche perché, parliamoci chiaro, avevano un attaccante fra i migliori tre del pianeta. In quel momento gioca al Liverpool ed è nel periodo di forma migliore della sua carriera, ogni pallone che tocca è gol. Pure al 33', quando batte Lehmann. Di reti non ne arriveranno più e 44 anni dopo la Spagna torna campione d'Europa. 

«Sono triste perché abbiamo perso la finale, ma credo che abbiamo perso una partita contro una squadra più tecnica della nostra e che si è resa pericolosa più volte di quanto ci siamo riusciti noi. Questa sconfitta non toglie nulla al fatto che abbiamo passato sei settimane fantastiche con questa squadra giovane e talentuosa. Adesso iniziamo a pensare al 2010.» Joachin Löw è lucido e pensa già a quello che verrà dopo. Nel calcio perdere fa parte del gioco, lo sa. È rialzarsi subito quello che contraddistingue le grandi squadre e la Germania lo è. Scherza nel girone eliminatorio, pareggiando solo con la Finlandia sia all'andata che al ritorno. Inutile dire che le altre sono otto vittorie e che il primo posto è loro, così come il miglior attacco e la miglior difesa. In Sud Africa, però, è vietato sbagliare: in Germania si deve tornare solo ed unicamente con la Coppa.

Joachim Löw e il suo vice Hansi Flick

Se siamo nel 2010, però, vuol dire che i tempi sono maturi. Maturi? Per chi? Per loro, i campioni d'Europa Under-21 del 2009. Gente come Neuer, Özil, Khedira, Boateng, Marin. Poi Jogi decide di portarsi dietro anche un giovane prospetto del Bayern Monaco, nato proprio in Alta Baviera un giorno di fine estate del 1989. Non ha vinto l'Europeo U21 l'anno prima, ma ha sicuramente qualcosa di speciale. A guardarlo non gli si darebbe un centesimo, poi lo vedi con la braccia al cielo e capisci che sta esultando per un gol appena segnato. A fine Mondiale lo avrà fatto cinque volte, più altre tre per gli assist. La Scarpa d'oro e il titolo di miglior giovane se li porta a casa lui. Se li porta in quella Germania dove in tanti condividono con lui il cognome, soprattutto un simpatico signore nato nel 1945: di nome fa Gerhard, ma per tutti è Gerd e di cognome fa Müller. L'altro, il ragazzo dell'89, si chiama Thomas e di Gerd sta seguendo bene le orme. In realtà, leggendo meglio i nomi dei 23, c'è un altro attaccante che meriterebbe l'accostamento con il Pallone d'oro del 1970. Vi avevo chiesto di tenerlo a mente e spero lo abbiate fatto, perché su Miro Klose è meglio aprire una piccola parentesi. Ha esordito in Nazionale nel 2001 affermando «In dieci anni batterò il record di gol con la maglia della Germania.» Sì, ma quando il numero da battere è 68 (lasciando stare le partite disputate), la storia si fa complicata. Peccato che questo inizi a segnare con una continuità disarmante con la maglia della Mannschaft e arrivi al 2010 con già 10 dieci gol al Mondiale, frutto dei cinque sia nel 2002 che nel 2006. Questo vuol dire che il record di Ronaldo, che con 15 reti è il primatista, è in serio pericolo. Alla fine ne metterà dentro altri quattro, tanti quanti ne bastano per raggiungere Gerd Müller a quota 14. Eh, il buon Miro così sbruffone non lo era in fondo.

Ora bisogna giocare e la Germania lo sa fare bene. Capitano è Philipp Lahm (ne ha fatta di strada) e non più Ballack e poi c'è tanto, tanto talento. Vincere il Mondiale è l'obiettivo principale e Löw sa di non poter fallire ancora. Esordio dirompente contro l'Australia (4-0), ma poi succede qualcosa. A Klose saltano i nervi e viene espulso, Podolski sbaglia un rigore e la Serbia ringrazia sentitamente. L'ultima partita contro il Ghana (primo a quota 4) è decisiva: ancora una volta dentro o fuori. La risolve un ragazzo con due palle al posto degli occhi, ma con due piedi e una visione di gioco che non in molti posseggono. È nato a Gelsenkirchen, ma gioca nel Werder Brema, ancora per poco. Bussa alla porta il Real Madrid: e gli vuoi dire no? Quel sinistro manda la Germania agli ottavi e Mesut Özil dritto nella capitale spagnola. Ora inizia la parte difficile e subito la strada si complica: c'è l'Inghilterra. Segnano sempre loro: Klose-Podolski, 2-0. La riapre Upson e poi succede quello che i tedeschi aspettavano da più di quarant'anni. Lampard tira e il pallone finisce di almeno mezzo metro oltre la linea della porta, Neuer fa finta di niente e continua a giocare. Gli inglesi protestano, ma l'arbitro incredibilmente non convalida il gol. Non varrà una finale Mondiale come nel '66, ma vale una scossa emotiva alla Germania. Nel secondo tempo ci pensa Müller a chiuderla in 3': 4-1 e Mannschaft avanti. È solo un assaggio di quello che accadrà ai quarti. Contro l'Argentina di Maradona in panchina e Messi in campo, i tedeschi fanno quello che vogliono dal primo all'ultimo secondo. Segnano Müller, Klose, Friedrich e ancora Klose. È un'apoteosi. La Germania va in semifinale con tutte le carte in regola per ottenere la vittoria finale e, a due anni di distanza, c'è la rivincita contro la Spagna. Già, ma questi come li batti? Sono i migliori al mondo da almeno due anni e non danno segni di cedimento. Durante la partita, non bellissima, è ovvio che prima o poi il gol arriverà. Lo firma Puyol e le Furie Rosse sono in finale per la prima volta. Germania costretta nuovamente alla finalina. Löw ammetterà l'inferiorità della sua squadra e si prenderà tutte le colpe. Il 3-2 contro l'Uruguay serve solo per far vincere la classifica marcatori a Müller e aggiungere un inutile terzo posto in bacheca. Tempo per rimediare ce n'è e sarà ancora Jogi Löw a comandare il tutto. Dalla Spagna ha imparato che il possesso palla è importante, ma sa anche che imitarlo sarebbe un suicidio. Intanto, dal suo paese, continuano ad arrivare nuovi talenti. Stai a vedere che per Euro 2012 non siano finalmente tutti pronti.


Le qualificazioni lasciano poco spazio all'immaginazione: 34 gol fatti, 7 subiti, dieci vittorie su dieci, Miroslav Klose e Mario Gomez re e principe dei gol e le briciole agli avversari. La Turchia, seconda nel girone, ha un distacco di 13 punti. È dunque in un clima di festa e di alte ambizioni, che la Germania vola in Polonia e Ucraina. E a sedici anni dall'ultima vittoria internazionale, la pazienza sta iniziando a terminare.


Il girone in cui viene inclusa la Mannschaft è ostico: ci sono i vice-campioni del mondo dell'Olanda, il Portogallo di Cristiano Ronaldo e la Danimarca, che non è mai da sottovalutare. Gomez pensa a stendere Portogallo (1-0) e Olanda (2-1), mentre Podolski e Bender fermano i danesi (2-1). Contro la Grecia, ai quarti, è quasi uno scherzo. 4-2 e passaggio in semifinale senza troppi patemi. La squadra c'è e il gioco pure, questa volta Löw crede di avere finalmente la formazione vincente. E poi spuntano loro. L'Italia, ancora. Sempre loro. Gli Azzurri sono obiettivamente più scarsi, ma quando vedono la Germania danno sempre il massimo. Vincono 2-1 con doppietta di Balotelli, anche se gli ultimi minuti, 
con il rigore di Özil, farebbero pensare ad un pareggio clamoroso nell'aria. In finale però ci va Prandelli con i suoi, ma a giudicare dal risultato, forse sarebbe stato meglio farsi i fatti propri. La Spagna si dimostra ancora la migliore e batterla, a questo punto, pare davvero una missione impossibile.

«Il futuro della squadra è roseo, sono stati due anni fantastici, abbiamo vinto 15 gare di fila, abbiamo perso contro un’ottima squadra, abbiamo fatto un super torneo. La squadra è ancora in fase di crescita, per esempio la Spagna ha aspettato anni per i titoli. È stata comunque un’esperienza positiva, il calcio è questo, non possiamo rimproverarci nulla.» Affermerà il c.t. tedesco. Ora, però, il futuro inizia a stare stretto. C'è bisogno del presente, c'è bisogno di vittorie. Löw ha tutta la fiducia della federazione ed è con questa fiducia che inizia il girone di qualificazione a Brasile 2014. La filastrocca è sempre quella: primo posto, miglior attacco, miglior difesa, miglior marcatore e zero sconfitte. Su dieci partite un solo pareggio, spettacolare, per 4-4 contro la Svezia, che ha recuperato ben quattro gol. Ma difronte ai 36 gol segnati, quel risultato non mette paura. La Germania, questa volta, è pronta. E lo è per davvero: insieme alla Spagna campione di tutto, al Brasile padrone di casa e all'Argentina di Messi, viene messa tra le favorite. Adesso o mai più. Joachim Löw lo sa. Ora torna utile Hans-Dieter Flick, il secondo di Jogi. Löw sta esasperando il possesso palla, ma Flick gli dice «Hey, Jogi, guarda un po' che uomini hai. Secondo me, su qualche palla inattiva potremmo anche segnare». L'altro lo guarda e fa «Scommettiamo?» E scommessa fu. La Germania va in Brasile con i favori del pronostico e un allenatore che sa di poter scrivere la storia.



La prima partita se lo ricorderà Thomas Müller, autore della tripletta con cui la Mannschaft batte 4-0 il Portogallo. La seconda, invece, è importante per Klose. Non tanto per il risultato, 2-2 contro il Ghana, ma perché con il gol segnato, raggiunge Ronaldo a quota 15 in vetta alla classifica dei migliori marcatori di sempre al Mondiale. Poco prima aveva anche agganciato e superato Gerd Müller nella all-time dei goleador tedeschi. Con tre anni di ritardo rispetto alla sua previsione e con il doppio della partite giocate, certo, ma ora sopra a tutti c'è lui. Con gli USA è un ritorno al passato, infatti dall'altra parte c'è seduto Klinsmann. Decide ancora Müller e gli ottavi con l'Algeria non dovrebbero essere un problema. E invece gli algerini si riveleranno il maggior ostacolo per la Mannschaft. La partita viene decisa solo ai supplementari: prima Schürrle e poi Özil. Inutile il gol di Djabou a tempo scaduto. La Germania vola ai quarti e lo fa con due note positive: la Spagna campione e la bestia nera Italia, sono entrambe state eliminate nella fase a gironi. Ora c'è la Francia, ma soprattutto c'è una punizione dalla trequarti, una palla inattiva. La batte Kroos e la impatta Hummels. 1-0 ed è con questo risultato che la Nazionale di Löw passa in semifinale. Ma sono certo che quello più contento di tutti sia stato Flick: d'altra parte, i tedeschi sulle palle ferme son sempre stati forti. Adesso arriva il capolavoro. E occorre un altro piccolo flashback. «Klose gioca ancora vero? Ok, ma spero che non partecipi al prossimo Mondiale qui in Brasile». Le parole sono di Ronaldo, Luis Nazario, in riferimento al suo record. Come sappiamo, Klose lo ha già raggiunto, ma ora ha la possibilità di superarlo. E attenzione, perché l'8 luglio 2014 a Belo Horizonte si gioca Brasile-Germania: un capolavoro. 29': il tempo servito alla squadra di Löw per spazzare via un intero popolo, che ha vissuto la sua più grande catastrofe dopo il Maracanazo del 1950. In quel lasso di tempo, sono arrivati cinque gol e uno di quelli lo ha segnato Klose. Sono 16, ora il record è tutto suo. Nel secondo tempo arriveranno la doppietta di Schürrle e il gol inutile di Oscar. Finisce 7-1: una vergogna infinita per i brasiliani nel Mondiale casalingo. Una batosta da cui difficilmente si riprenderanno, di certo non nella finalina, persa 3-0 contro l'Olanda. Ah, ma chi ha eliminato l'Olanda? L'Argentina. Come? Ancora l'Argentina? Non gli sono bastate le lezioni del 2006 e del 2010? Ah già, ma c'è da giocare la bella: una finale all'Albiceleste, una finale alla Mannschaft, A Rio de Janeiro tutti si aspettavano il Brasile, invece arrivano i loro più grandi rivali e un'europea. Non proprio secondo i piani. Tutto questo rispetta, però, i piani di Jogi. Manca l'ultimo tassello, quello per diventare il migliore. L'Argentina fa paura e segna anche con Higuain, pescato in off-side. La partita non si sblocca e si va ai supplementari. Löw, però, la partita la vince poco prima del 90'. Toglie Klose e mette Götze, dicendogli «Va' e dimostra a tutti che sei meglio di Messi.» Nel più classico dei "detto-fatto", è il ragazzino del Bayern a raccogliere l'assist di Schürrle al 113' e impattare perfettamente la sfera, dopo averla controllata. La Germania vince ed è campione del Mondo per la quarta volta, con una squadra composta da giocatori che il Mondiale del 1990 se lo ricordano poco o che addirittura non l'hanno nemmeno potuto vedere per questioni anagrafiche. Ma è soprattutto la vittoria di Joachim Löw, che ci ha messo dieci anni per raggiungere questo traguardo. Due da vice di Klinsmann e otto da c.t. 




Nella lista per il miglior allenatore del 2014 c'era anche lui. Anche in quella dei finalisti, insieme ad Ancelotti e Simeone, che hanno dominato il calcio spagnolo ed europeo. La votazione, però, ha premiato Jogi, che ha quindi capito di essere diventato il migliore. E lo è diventato contro tutti e contro tutti, proponendo un calcio bello vincente, andando sempre dritto per la sua strada. Ci ha messo dieci anni, ma alla fine glielo hanno riconosciuto tutti: Joachim Löw ist FIFA Trainer des Jahres. Bravo Jogi, te lo meriti.