sabato 8 marzo 2014

Cedric Mabwati e la sua particolare clausola di rescissione

Se dico Kinshasa, la cosa che viene alla mente è una: The Rumble in the Jungle, George Foreman vs Muhammad Ali, incontro valevole per il titolo dei pesi massimi di boxe. Per una notte la capitale dell'allora Zaire, sarebbe stata il centro del mondo. Era il 30 ottobre 1974 e Ali sfoderò una delle sue migliori prestazioni, rivincendo il titolo per la seconda volta. Diciotto anni dopo, nella stessa Kinshasa, nacque Cedric Mabwati, giocatore del Betis Siviglia. In questa stagione la giovane ala congolese si è messa in mostra, nonostante la sua squadra sia ultimissima e lontana dalla salvezza. Ma oltre alle discrete abilità tecniche, Cedric ha attirato l'attenzione per il suo passaggio dal Numancia al Betis: prezzo di trasferimento € 1,20. Sì e no, un caffè. Questo è stato possibile grazie alla sua particolare clausola di rescissione: se una squadra si fosse interessata a lui prima del 15 giugno (2013), il suo valore sarebbe stato € 1,20, altrimenti la cifra sarebbe lievitata fino a 5.000.000. Il Betis si è affrettato ed ha concluso un bell'affare. Il calcio offre sempre belle storie e se da una parte abbiamo "il giocatore costato un caffè", a Madrid, sponda Real, troviamo Cristiano Ronaldo e Bale, quasi 200 milioni di giocatori. Ora immaginatevi Betis-Real e Mabwati contro il portoghese e il gallese. All'andata, quando ancora Bale doveva arrivare a Madrid, il Betis e Cedric spaventarono il Bernabeu e la squadra di Ancelotti, che fu salvata in extremis da Isco. Poi arrivò Bale e Isco perse il posto da titolare. Il ritorno fu una pratica chiusa senza patemi da parte del Real, con Ronaldo e Bale ad aprire le marcature del 5-0 finale. Mabwati quella partita del 18 gennaio non la giocò. Tutto normale, insomma: il grande Real degli acquisti esorbitanti, strapazza il piccolo Betis degli acquisti misurati. Le solite storie. Però, ogni volta che berrete un caffè e lo pagherete più di € 1,20, ricordatevi di Cedric e dalla sua strana clausola, almeno potrete dire "Questo caffè mi è costato più di un calciatore". Strano, no?


venerdì 7 marzo 2014

Il più grande calciatore che non avete mai visto

Di solito, nell'immaginario collettivo, i più grandi calciatori della storia del calcio sono due: Edson Arantes do Nascimento, meglio noto come Pelé, e Diego Armando Maradona. Due tra i più influenti numeri 10 del XX secolo, che hanno scritto pagine importanti di Brasile e Argentina. A questi, si potrebbero affiancare, anzi si dovrebbero affiancare, altri grandi nomi: Johan Cruijff, Michel Platini, Alfredo Di Stéfano, Marco Van Basten e altri ancora. Uscendo da quell'immaginario collettivo di cui vi parlavo e mettendomi in prima linea, escluderei a priori Maradona. E non sarei l'unico. Le preferenze sono preferenze, sia chiaro, ma c'è un altro giocatore che dal 1963 al 1970 è stato "il migliore al mondo", usando le parole dello stesso Pelé: George Best. Se ne andrà dal Manchester United nel 1974 e proprio in quegli anni, quelli del declino, si affacciava nelle serie minori inglesi "l'altro George Best". Ora qui la storia cambia: da Di Stéfano a Van Basten, sono passati tanti grandi campioni e, in un modo o nell'altro, abbiamo avuto la possibilità di ammirare le loro gesta. All'inizio degli anni '70, invece, iniziava la carriera di un calciatore che sarebbe ben presto andato nel dimenticatoio. Un giocatore dal grande talento, è vero, ma inglese. E voi sapete che i sudditi della Regina hanno un difetto: l'alcool, a cui si aggiungono tante altre cose. Quando hai talento e riesci ad abbinarlo alla ragione e alla buona volontà, arrivi in prima divisione e tutti si accorgono di te. Quando hai talento, ma lo sprechi rovinandoti la vita, la prima divisione la vedi con il binocolo e il tuo provino per una squadra dilettante si chiama riformatorio. Ma se andate dai tifosi del Reading e chiedete il nome del loro calciatore del millennio, vi risponderanno in coro: Robin Friday. 


La sua storia parte da Acton, un quartiere difficile di Londra, nel 1952. Sin da piccolo mostra un incredibile potenziale calcistico, ma Crystal Palace, QPR e Chelsea gli sbattono la porta in faccia: un carattere troppo sopra le righe gli preclude qualsiasi chance di giocare con i grandi. Decide quindi di lasciare la scuola e di iniziare il lavoro di muratore a 15 anni. L'anno dopo finisce in riformatorio, dove gioca per la squadra della prigione: è diverse spanne sopra gli altri ed ottiene il permesso per allenarsi con le giovanili del Reading, che ovviamente poi lo rispediscono indietro. A 19 anni trova posto nella squadra di dilettanti del Walthamstow Avenue. Ci rimane pochissimo, giusto il tempo di essere notato dall'Hayes, dove mette in mostra tutto il suo repertorio: sia dentro che fuori dal campo. Alcolizzato, drogato e donnaiolo: Friday non se ne fa mancare una. Resta qui tre anni, ma prima di andarsene, affronta il Reading in FA Cup: il manager Charlie Hurley viene colpito dall'estro di Friday e decide di portarselo con sé. 



È il 1973, Robin ha solo 21 anni e finalmente è arrivata la prima grande chiamata. Il suo esordio è tardivo, a causa della sua troppa foga agonistica durante gli allenamenti, che ne comporta un allontanamento dalla squadra. A quel punto, però, la situazione del Reading è critica e Hurley decide di buttarlo nella mischia e Friday non delude le aspettative: incredibilmente forte in campo, "stupefacente" fuori. Nella stagione 1975/76 si rivela fuoriclasse assoluto della quarta divisione inglese, mettendo a segno 21 gol in 44 partite e trascinando da solo il Reading alla promozione. A metà della stagione dopo, però, viene cacciato e trova posto nel Cardiff City in seconda divisione. Qui ritrova il Chelsea, che lo aveva scartato circa dieci anni prima, che riuscirà ad arrivare secondo ed essere promosso, insieme al Wolverhampton primo e al Nottingham Forest di Brian Clough terzo. In mezzo a quelle 22 squadre c'era anche il Fulham di Bobby Moore, il leggendario capitano dell'Inghilterra campione del mondo. L'esordio avviene proprio contro i Cottagers: Friday segna due reti e ridicolizza Moore, che si becca pure una celebre strizzatina di testicoli. Il resto è il solito copione: alcool, droga e donne. L'ultimo highlight della sua breve carriera arriva il 16 aprile 1977: dopo vari scontri, colpisce il portiere del Luton con una scarpata in faccia. In un momento di ragione, decide di scusarsi e porgere la mano, ma il suo avversario lo ignora e passa subito la palla ad un difensore. A quel punto Friday corre come un dannato, recupera palla, arriva in area, mette a sedere il portiere, segna ed esulta con le dita a V, che nei paesi anglosassoni sta ad indicare una parola che inizia appunto per v e finisce affanculo. 


La stagione dopo la inizia, ma non la finisce. Dopo sole due partite, decide di ritirarsi il 20 dicembre del 1977, a soli 25 anni e con alle spalle una carriera mai totalmente iniziata e rimasta incompiuta. Il Brentford e il Reading proveranno a rimetterlo in squadra, ma sarà tempo sprecato. Leggendario il rifiuto alla sua ex squadra: quando l'allenatore gli chiede di mettere la testa a posto, per poter arrivare anche in Nazionale, Friday gli chiede l'età e risponde "Ho la metà dei tuoi anni e ho già vissuto il doppio di te". Si ritira quindi ad Acton, dove viene trovato morto il 22 dicembre del 1990 a causa di un overdose, a soli 38 anni. 
La sua carriera è durata solo quattro anni, dal 1973 al 1977, ma in questa breve parentesi è riuscito ad imporre il suo gioco e ad entrare nel cuore di tutti quelli che sono riusciti a vederlo, che difficilmente riusciranno a dimenticare un giocatore così. Sfrenato e fuori le righe, ma con un grande talento che, in un modo o nell'altro, ha sempre messo in campo. A lui non importava giocare, a lui importava prendere la palla, scartare tutti e segnare. A lui importava semplicemente essere Robin Friday, il più grande calciatore che non avete mai visto.

giovedì 6 marzo 2014

Inter ti presento Vidic


"Nemanja, oh oh oh, Nemanja, oh oh oh, he comes from Serbia, he'll fucking murder ya!". Basterebbe un semplice coro, cantato sulle note di "Nel blu dipinto di blu", per descrivere Nemanja Vidic. Non c'è bisogno di traduzione, il messaggio arriva comunque forte e chiaro: Vidic non ha paura di nulla e lo ha sempre dimostrato sul campo. Del resto, come dice lui stesso, "Sono cresciuto in mezzo alle bombe, perché mai dovrei avere paura di un contrasto aereo contro il portiere?". Ed è qui che sta la forza del centrale serbo: il coraggio. Pochi giocatori oggigiorno possiedono la stessa carica agonistica di Vidic e proprio questo lo ha reso uno dei migliori difensori degli ultimi anni. Ma il giocatore nato a Uzice non è solo cattiveria e impegno, perché a queste qualità è riuscito ad abbinare anche molto abilità tecniche, che lo hanno reso un pericolo pure per i portieri avversari, oltre che per gli attaccanti. 
Con il Manchester United, Vidic ha vinto tutto quello che c'era da vincere, formando insieme a Rio Ferdinand una delle coppie centrali più solide degli anni 2000. Sin da quando è arrivato nel gennaio del 2006, il serbo ha imposto la sua leadership, imponendosi dapprima in Premier League e poi in tutta Europa. Nei suoi otto anni all'Old Trafford, si è guadagnato la stima, il rispetto e l'affetto di tutti, diventando uno dei giocatori più amati ed ereditando ufficialmente la fascia di capitano nel 2011, dopo l'addio di Gary Neville. 
Dopo otto anni, dunque, Vidic lascia il Manchester United per provare una nuova esperienza nel campionato italiano con la maglia dell'Inter. La squadra nerazzurra ha sicuramente fatto un grande acquisto sotto il punto di vista dell'esperienza, ma se la politica di Thorir è "tutti sotto i 26 anni", la strada è ancora lontana: il difensore serbo è sulla via dei 33 anni, non di certo un giovincello. Ma a volte l'esperienza è più importante dell'età e Vidic arriverà in Italia per dimostrarlo. A dispetto di tutti i suoi detrattori, che lo danno ormai per pensionato.

Saluti, capitano.


sabato 1 marzo 2014

Il Superman rumeno dice no al Barcellona

Era il 1986. Il Barcellona era lontano anni luce dai momenti di gloria di questi tempi. In quella stagione, però, riuscì a battere sia i campioni d'Europa in carica della Juventus, che i futuri vincitori dell'edizione successiva, il Porto. Ma, come già detto, era il 1986, non il 1987. Il Barcellona in finale di Coppa Campioni ci arrivò, ma sulla sua strada incontrò un avversario che, da semplice outsider, divenne imbattibile. 

Era il 1986, il primo anno senza squadre inglesi nelle competizioni europee. Dal 1975 al 1985 (ad eccezione del 1976 e del 1983), i club di Sua Maestà avevano sempre centrato la finale di Coppa Campioni, vincendola nel 1977, 1978, 1979, 1980, 1981, 1982 e 1984 con Liverpool, Nottingham Forest e Aston Villa. Il dominio venne spezzato dalla furia dei tifosi del Liverpool che, nella finale del 1985 contro la Juventus, ne combinarono di ogni, facendo entrare quel 29 maggio di diritto della storia del calcio. Con contorni negativi, purtroppo. La punizione della UEFA fu esemplare: ogni squadra sarebbe rimasta esclusa da qualsiasi competizione europea per un tempo indeterminato. Solo nel 1990 - un anno dopo un'altra tragedia del football inglese, quella di Hillsborough - i club inglesi furono riammessi, ma gli anni d'oro erano ormai passati. Troppe cose erano cambiate nel frattempo. Una cosa rimase uguale: il Barcellona, uno dei club più gloriosi di Spagna, aveva ancora zero Coppe Campioni in bacheca. Nel 1961 fu il mitico Benfica a negargli la gioia europea. Nel 1986 fu un simpatico portiere rumeno dai folti baffi: Helmuth Duckadam.

Era il 1986, il 7 maggio per la precisione. Si giocava una partita. No, qualcosa in più di un semplice incontro: era la finale della Coppa Campioni, che si sarebbe disputata in uno degli stadi più infuocati di Spagna, il Sanchez-Pizjuan di Siviglia. Solo quattro anni prima, era stato il teatro della stupenda semifinale del Mondiale tra Germania e Francia. Quella sera le cose andarono diversamente, perché se tra tedeschi e francesi le cose dovevano essere, e furono, incerte, quel 7 maggio il popolo gridava già un vincitore predestinato: il Barcellona. I catalani, infatti, avevano difronte i rumeni della Steaua Bucarest. Chi mai avrebbe pensato che quegli undici uomini arrivati da un paese semi-sconosciuto al resto del mondo, potessero battere i campioni spagnoli? Senza dimenticare che i catalani erano 60000 nello stadio. Quello che la squadra di Terry Venables avrebbe dovuto fare, era semplicemente segnare un gol, per poi godersi gli attimi di felicità al fischio finale. Una missione semplicissima. Forse troppo...

Era il 1986. La squadra più forte della Romania era la Steaua Bucarest, undici rumeni che nessuno conosceva allenati da Emerich Jenei. Un mix di esperienza e gioventù, ma anche molta fortuna. Nel primo turno incontrano i danesi del Vejle: 5-2 totale senza troppe storie. Negli ottavi regolano con un 4-1 interno le macerie della Honved. Nei quarti riescono a pescare la squadra più scarsa in mezzo a squadroni: i finlandesi del Kuusysi Lahti. Incredibilmente, sono la formazione che gli dà più noie, ma riescono comunque ad accedere alle semifinali, dove incontrano l'Anderlecht, che ha eliminato il Bayern Monaco nel turno precedente. L'ennesima prova di forza casalinga, spinge i rumeni verso un'insperata finale. Dall'altra parte del tabellone, il Barcellona suda sette camicie per eliminare Sparta Praga e Porto grazie alla regola dei gol in trasferta, la Juventus ai quarti (1-0 e 1-1), mentre in semifinale rimonta il 3-0 dell'andata al Goteborg, vincendo ai rigori. In finale ci arrivano loro, con una sola certezza: il trofeo avrà un nuovo vincitore, per il secondo anno consecutivo. 

Quel 7 maggio del 1986 successe qualcosa di incredibile a Siviglia. Il Barcellona attacca, domina, tira, ma trova sempre un avversario insuperabile: Helmuth Duckadam. Il simpatico baffone è in giornata di grazia ed inventa un nuovo metodo per vincere: giocare con un portiere che non può subire gol. I catalani tirano, lui para. I catalani ritirano, lui ripara. Dopo 90' è ancora 0-0. Nei supplementari il copione non cambia. Dopo 120' il Barcellona non è ancora riuscito a segnare. Ma adesso ci sono i rigori, arriveranno i gol. O, almeno, tutti si aspettano, finalmente, dei gol. Batte Majearu: sbaglia. Tocca ad Alexanko: Duckadam para. Va Boloni: Urruti ci arriva. Pedraza batte a sinistra come Alexanko: Duckadam si oppone nuovamente. 120', quattro rigori e zero gol. Quel 7 maggio era già entrato nella storia. Ora toccava al baffo scrivere la sua. Lacatus riesce a segnare. Il Pichi Alonso non cambia lato, tira a sinistra: Duckadam ci arriva ancora. Balint segna. Marcos Alonso tira a destra, forse è la mossa giusta. Invece no, perché Duckadam nega il gol anche a lui. La Steaua vince 2-0 ai rigori la Coppa dei Campioni. L'eroe si chiama Helmuth Duckadam, un portiere che non può subire gol. Facile vincere così, vero? Quel giorno Superman si rivelò a noi umani e parve spiccare il volo verso una carriera ricca di successi. Invece... 


Quel 7 maggio del 1986 fu l'ultima partita di Helmuth Duckadam. In mezzo al suo ritiro, tante voci, forse troppe, perché il 7 maggio del 1986 la Steaua Bucarest giocò e vinse la finale della Coppa Campioni con in porta un grande portiere. Quello che successe dopo, è un'altra storia. A me piace ricordare la parte più bella, la copertina di una storia fatta di tanti bassi e pochi alti, ma con un acuto che fa intimidire anche un portierone come Gigi Buffon.