mercoledì 18 luglio 2012

Bello, bravo e ribelle

Ci sono calciatori che vanno oltre il palmares, oltre le squadre in cui hanno giocato, oltre la loro bravura, oltre i gol, oltre quello che hanno fatto, ci sono giocatori che vanno pure oltre... il carcere.
Immaginate la Mosca degli anni '50 e '60. Se sei bravo a tirare a calci un pallone, devi giocare, o nella Dinamo (la squadra del KGB), o nel CSKA (regime). Non hai altre scelte.
Non hai altre scelte neanche se ti chiami Eduard Streltsov e sei il più forte talento dell'Europa e hai appena fatto vincere le Olimpiadi del '56 all'URSS.
Giochi nella Torpedo Mosca? Non va bene. Devi giocare per una delle due squadre dell'esercito.


Siamo alla vigilia dei Mondiali del 1958 in Svezia. C'è grande attesa per l'URSS e per il suo talento.
Peccato che Streltsov, a quel Mondiale, non ci andrà. Pochi mesi prima era stato condannato a 12 anni di carcere per violenza ai danni di una ragazza. Una sceneggiata bella e buona da parte dell'esercito, a cui non era andato giù il fatto che Streltsov giocasse ancora nella Torpedo. E che avesse rifiutato la figlia di un uomo importante dell'Unione Sovietica. Ma anche il fatto che portasse sempre quel ciuffo ribelle, che avesse un comportamento da divo e che amasse donne e alcol.
Agli occhi della società comunista, era il peggiore esempio per la gioventù bolscevica.
Allora cosa si fa? Si preserva il più grande talento dell'epoca? Ma certo che no! Meglio condannarlo per qualcosa che non ha fatto e sbatterlo in un gulag siberiano.


Nel 1965 Eduard torna alla libertà. E riprende a giocare con la sua Torpedo, guidandola al successo in Campionato.
Si ritirerà nel 1970, all'età di 33 anni.
Dopo aver passato una vita alla Torpedo. Dal 1954 al 1958 e ancora dal 1965 al 1970. Mettendo assieme 222 presenze e 99 gol. Oltre alle 25 reti nelle 38 presenze con la Nazionale Sovietica.
Resta il rimpianto per non aver potuto vedere tutto il suo talento. Ma rimane l'impresa leggendaria del suo esordio in Nazionale, a soli 17 anni. Quando l'URSS sconfisse 6a0 la Svezia. Lui fece tre gol e tre assist.
Rimarrà anche il dubbio su chi sarebbe potuto essere il vero re del Mondiale del 1958. Lui o Pelé?
Il brasiliano non ha dubbi, in quanto disse: Il mio più grande rivale? Eduard Streltsov. E ancor oggi, penso che avrebbe potuto essere più forte di me.
Lui a quel Mondiale, non ci ha partecipato. E rimarranno tanti dubbi sul suo vero valore.
Noi ci godiamo quello che ci ha lasciato, sapendo che sarebbe potuto essere molto, molto di più. Se andate in Russia, ancora oggi, il colpo di tacco viene chiamato "Lo Streltsov", in onore del grande giocatore che lo rese celebre.
Eduard Streltsov, 21 luglio 1937 - 20 luglio 1990. Sfortunato pure nel giorno della morte. Un solo giorno prima il suo compleanno.















martedì 17 luglio 2012

Poche parole: Scholes

Londra, 28 maggio 2011. Ore 22.45 circa. Stadio di Wembley.
Era appena finita la finale di Champions League, dove il Barcelona aveva battuto 3a1 il Manchester United. E chi giocava in quel Manchester United? Un certo Paul Scholes. Beh, ora io potrei scrivervi poemi su questo ragazzo dai capelli rossi. Ma non è questo il momento. Io voglio soffermarmi sulla fine di quella gara.
A fine partita i giocatori si scambiano le maglie, se gli va.
Bene, alla fine di quella partita, di quella finale di Champions League, una partita in cui tutti vorrebbero tenersi la loro maglia, furono in cinque i giocatori del Barça a volere la maglia di Paul Scholes. Xavi, Busquets, Pedro e pure Messi. Ma fu Andres Iniesta a batterli tutti.
Alla fine di quella stagione, Scholes deciderà di ritirarsi (salvo poi tornare sui suoi passi), ma ancora quel giorno non si sapeva. Quindi non è stato un gesto per un calciatore che non si sarebbe più incontrato. Ma è stato un gesto, verso un giocatore rispettato da tutti. Pure da cinque giocatori che lo avevano appena battuto. Alcuni per la seconda volta. Verso un giocatore che tre anni prima li aveva buttati fuori in semifinale.
Quel calciatore è Paul Scholes. E questo è uno degli aneddoti più belli della storia calcistica moderna.




Super Jaap


Se penso a Jaap Stam, mi viene in mente il Manchester United del treble del 1999.
Stam è un giocatore che si è fatto tanta gavetta prima di potersi definitivamente affermare.
Fino a vent'anni giocava ancora delle giovanili del DOS Kampen. Poi ha firmato per lo Zwolle. Poi ancora due stagioni al Cambuur e il passaggio al Willem II. Nel 1996 arriva il primo grande passo e si chiama PSV. Ci rimarrà per due stagioni e giocherà talmente bene da meritarsi la chiamata di Sir Alex Ferguson allo United.
Bene, qui la carriera di Stam cambia. A 26 anni, nel pieno della maturità calcistica, si presenta in Inghilterra da grande leader della difesa. Come già detto, conquisterà il treble e il portiere di quello United, Schmeichel, all'ultima stagione con i Red Devils, dirà che Stam è il miglior difensore che abbia avuto davanti alla porta.
Nel 2001 passa alla Lazio, ma il suo arrivo in Italia è controverso. Tra infortuni e controlli antidoping, non riesce a mostrare tutte le sue qualità nel primo periodo. Poi ritorna lo Stam di prima e fa passare brutti momenti agli attaccanti italiani.
Alla Lazio rimarrà tre anni, prima di passare al Milan nel 2004.
Nelle due stagioni al Milan continua a far bene, ma le primavere sono già 32. Così, dopo altre due stagioni, torna in Olanda, all'Ajax, per chiudere la carriera.
Il 29 ottobre 2007, si ritira ufficialmente dal calcio giocato, dopo i continui problemi fisici.
In mezzo a tutto ciò, pure un'esperienza di otto anni nella Nazionale Olandese. In cui ha messo assieme 67 presenze e 3 gol.
Il 17 luglio 1972 nasceva questo grande difensore. Auguri Stam!

lunedì 16 luglio 2012

Fuga di talenti

Quanti calciatori se ne stanno andando via dal nostro paese, dal nostro Campionato. Tra l'anno scorso e questo, davvero tanti, troppi.
Sanchez, Pastore, Sirigu, Lavezzi, Ibra, Menez, Thiago Silva e tanti altri. La destinazione preferita è il PSG. Chissà come mai...
Ma il PSG ha anche qualcos'altro di nostro, l'allenatore.
Ancelotti è alla guida dei parigini dall'inizio dell'anno e Leonardo gli sta allestendo una squadra che punta alla Champions e che deve (non uso neanche il condizionale) vincere a mani basse la Ligue 1.
E poi c'è Mancini, allenatore del Manchester City, fresco campione d'Inghilterra e deciso a puntare, anche lui, la Champions League.
Oltre il fatto di essere italiani, li accomuna anche il poter avere un budget assurdo grazie agli sceicchi.
E che dire di Lippi. Praticamente il più ricco di tutti con i suoi 10 milioni annui. Nuovo allenatore del Guangzhou Evergrande, club cinese con grandi ambizioni.
Più in sù di Lippi, da pochi giorni c'è Fabio Capello, che dopo le incomprensioni con la FA, torna ad allenare un'altra Nazionale: la Russia.
Ma il migliore di tutti è Zaccheroni San che pronti via, nel 2011, vince la Coppa d'Asia con il Giappone. Che non può decidere di avere in rosa mezzo mondo come PSG, City e Guangzhou e non è nemmeno la Russia. Intanto, Zaccheroni San ha già vinto. E lì in Giappone è ormai uno di loro.
Bravo Zac... scusate Zaccheroni San!

Maracanaço

Io non c'ho mai provato. Ma nel caso voi andaste in Brasile, evitate di dire la parola "Maracanaço".
Ora voi direte: perché? E avete anche ragione. Ma non è una cosa che si spiega in poche parole. È una cosa che va' al di là del calcio, per sfociare in un clima sociale di un paese che vuole risollevarsi grazie al calcio. Parlo del Brasile, ovviamente. E parlo del Mondiale del 1950. Svolto proprio in Brasile.
Bene, era un formato diverso da quello di adesso. Ci furono quattro gironi (due da quattro, uno da tre e uno da due squadre), le prime accedevano all'ultimo girone, in cui tutti dovevano sfidare tutti.
Arriviamo all'ultima partita, Brasile-Uruguay. Brasile a 4 punti, Uruguay a 3. Era come una sorta di finale. Soltanto che il Brasile aveva due risultati su tre.
Ecco, da qui, la partita diventa leggenda.
Brasile. Uruguay. Stadio Mario Filho. Non vi dirà niente il nome, perché gli è stato dato nel 1964. Fino ad allora, si chiamava con un altro nome, che è quello che tutti conosciamo: Maracanà.
La FIFA dice che ci fossero 173850 persone. I testimoni dicono che superassero come minimo i 190000, si arrivava a 200000. 200000 persone dentro a uno stadio, con una sola speranza, un solo desiderio: diventare Campioni.



E le cose si misero bene per il Brasile. Al 47' Friaça segnava l'1a0. Adesso all'Uruguay servivano due gol per diventare Campione.
Facciamo un passo indietro adesso. Quando si gioca una finale, non hai la certezza di vincere. Sì, qui il Brasile partiva con un 66-33, anziché 50-50, ma non aveva comunque la certezza di aver vinto. Nessuna squadra l'avrebbe avuta questa certezza. Tranne il Brasile nel Mondiale di casa. Vi dico 500000. È il numero di magliette con scritto "Brasil campeão 1950", già il giorno prima. Il giorno della finale fu improvvisato un carnevale e i titoli dei quotidiani davano già il Brasile Campione.
Prima del fischio di inizio, il generale de Morais disse, davanti a tutti: "Voi, brasiliani, che io considero vincitori del Campionato del Mondo. Voi, giocatori, che tra poche ore sarete acclamati da milioni di compatrioti. Voi, che avete rivali in tutto l'emisfero. Voi che superate qualsiasi rivale. Siete voi che io saluto come vincitori!"
Fuori dallo stadio c'erano cartelloni che omaggiavano i "Campioni del Mondo".
Pensate a quanto i brasiliani tenessero a questa Coppa. Era tutto per loro.
Bene, torniamo all'1a0. Servivano due gol all'Uruguay. Come avrebbe potuto vincere? A maggior ragione, dopo quello che vi ho scritto. In un'atmosfera vietata ai deboli di cuore.
Poi, successe l'impensabile. Minuto 66: Schiaffino fa l'1a1. Ma non è importante, il Brasile è sempre avanti nella classifica. Non fa niente, tra 24' saremo Campioni. Era questo che pensavano i brasiliani.
Poi dovettero risvegliarsi. Perché Ghiggia, uno dei più forti attaccanti dell'epoca, aveva fatto pure il 2a1. Ed era già il 79'. Mancavano solo 11'. E passarono inesorabilmente. L'arbitro fischiò la fine. Era finita.



L'Uruguay andava a 5 punti e il Brasile rimaneva a 4. La Celeste era Campione del Mondo per la seconda volta nella sua storia.
Già di per sé questo è un dramma. Ma quello che è successo dopo, lo renderà ancora più triste.
Si contano tra i 6 e i 10 morti di infarto allo stadio dovuto allo shock per la sconfitta dei loro beniamini.
Alcuni si suicidarono dopo. Magari perché avevano investito tutti i risparmi di una vita in quella partita.
Jules Rimet, il presidente della FIFA, si trovò nell'imbarazzo più totale a dover consegnare la Coppa alla Nazionale vincente, che non era il Brasile.
Era uno stadio in lacrime.
Pure quelli dell'Uruguay erano increduli difronte a tanta tristezza. Rimet consegnò la Coppa al capitano della Celeste, gli strinse la mano e se ne andò. Un po' come quando consegnate le verifiche ai prof.
In tanto tutto il Brasile cadeva nello sconforto più totale. Si parla di 34 suicidi e 56 infarti. Il governo proclamò tre giorni di lutto.
Ma ci pensate? Immaginate quanto e cosa volesse dire per un'intera nazione quella Coppa.
Rimet disse che "Era tutto previsto, tranne la vittoria dell'Uruguay".
I giornali cambiarono drasticamente le loro prime pagine. Da "Campioni" a "La nostra Hiroshima" e "La tragedia più grande".
Le due righe che scrisse Josè Lins do Rego, meritano di essere ricordate: "Ho visto un popolo a testa bassa, con le lacrime agli occhi, senza parole, lasciare lo stadio come se tornasse dal funerale di un amatissimo padre. Ho visto un popolo sconfitto, e più che sconfitto, senza speranza. Questo mi ha fatto male al cuore. Tutte le emozioni dei minuti iniziali della partita si sono ridotte a cenere di un fuoco spento."
"Eravamo felici, ma anche molto imbarazzati. Non avevamo mai visto, e credevamo che non avremmo mai più visto, un intero popolo soffrire così tanto e in quel modo. Si udivano i loro pianti. Insomma, fu un’atmosfera da film. Da film del terrore". Così Schiaffino ricorda il suo Mondiale. Come un film del terrore.
L'Uruguay tornò subito a casa. Ma ciò non impedì ai brasiliani di aggredire Ghiggia e di farlo tornare con le stampelle. Quasi a dire "Non farti più vedere".
A maggior ragione dopo che disse "A sole tre persone è bastato un gesto per far tacere il Maracanã: Frank Sinatra, il Papa e io".
Ghiggia ritornerà al Maracanà, per mettere le impronte dei suoi piedi nella Walk of Fame dei calciatori che hanno scritto la storia di questo stadio. Anche se Ghiggia, a dire la verità, cambiò la storia di un intero paese.
Come se tutto ciò non bastasse, i brasiliani ebbero pure il coraggio di trovare un capro espiatorio. E non ci vuole molto a capire su chi caddero le colpe. Pensateci: quando si subisce gol, di chi è la colpa?
Esatto. E chi era il portiere di quella Nazionale? Un certo Moacir Barbosa Nascimento. Era una persona di carnagione scura, molto scura. Bene, il Brasile "decise" di non avere mai più portieri neri. Ed eccetto la parentesi Dida, non li  ebbe per davvero.
"Guarda quest'uomo, è lui che tanti anni fa ha fatto piangere tutto il Brasile". Questo disse una donna al suo bambino, riferendosi a Barbosa.



Adesso è morto, nel 2000, ma lui stesso disse che "La pena più lunga per un reato in Brasile è 30 anni, io è da 43 che pago le conseguenze, di qualcosa che non ho mai fatto".
La Federcalcio Brasiliana cambiò pure il colore della divisa. Fino ad allora era bianca con colletto blu.
Cambiò e diventò quella che tutti conosciamo e che ha reso grande il Brasile: quella verde-oro.



Vi ho detto praticamente tutto. Tranne la data di quella partita. Era il 16 luglio 1950. Lo stadio era il Maracanà di Rio de Janeiro e si consumò il più grande disastro della storia calcistica e forse anche di quella sportiva in generale.
Io non c'ho provato. Ma fossi in voi, non ci proverei proprio a dire "Maracanaço", perché lì in Brasile sono ancora in lutto.



domenica 15 luglio 2012

Enrico lo straniero

Milano, 3 giugno 1934: semifinale del Campionato Mondiale di Calcio, Italia-Austria. La partità finirà 1a0. Autore del gol un certo Enrique "Enrico" Guaita. Nato, morto e vissuto per gran parte della sua vita in Argentina. In Argentina? Ma come? Ebbene sì. Qualche anno fa (molti anni fa) i calciatori cambiavano la nazionalità come Ibra cambia le maglia. Basta pensare che Alfredo Di Stefano ne cambiò tre.
Ma Guaita è stato eccezionale per il fatto di aver vinto sia con l'Italia che con l'Argentina. Mondiale nel '34 e Copa America nel '37.
Ma cosa c'entra l'Italia con quest'uomo? Bene, nel 1933 la Roma lo acquista dall'Estudiantes, pensando di aver preso una macchina da gol (32 gol in 62 presenze). E così sarà. La prima stagione stenta e segna 14 gol in 32 gare, conquistando comunque la convocazione di Pozzo per i Mondiali. La stagione dopo diventa capocannoniere con 28 gol in 29 partite: record di gol in campionati a 16 squadre.
Il 19 settembre 1935 scappa via dall'Italia per paura di essere arruolato dall'esercito. Cosa improbabile.
Arriva ad Avellaneda e gioca con il Racing. Poi torna all'Estudiantes, dove si ritirerà a soli 29 anni, nel 1939.
Morirà nel 1959 a soli 49 anni.
E' praticamente sconosciuto e dimenticato da tutti, ma da me no. Io me ne ricordo e ricordo pure che oggi è il 15 luglio e sarebbe stato il suo compleanno. Auguri Enrique!


Prima di Maradona

Prima del Mondiale vinto nel 1986 grazie a Maradona, l'Argentina ne aveva già vinto un altro. E il protagonista era un altro calciatore.
Nel 1978 ci sono stati i Mondiali in Argentina, vinti dai padroni di casa contro la seconda Olanda del Calcio Totale, orfana di Cruijff e Michels.
Il capocannoniere fu Mario Kempes, che arrivava al Mondiale dopo una stagione fantastica: 39 gol in 46 partite.
Mario, però, nelle fasi iniziali stentava a trovare la sua forma migliore. E non realizzò nessun gol.
Poi il suo allenatore, César Luis Menotti, gli disse "Quei baffi ti stanno male. Che ne dici di tagliarli?" (molto simpaticamente). Mario disse sì e il suo Mondiale cambiò.
Nel secondo girone, quello di qualificazione alla finale, segnò due doppiette contro Però e Polonia e l'Argentina passò e trovò in finale l'Olanda.
Mariò aprì le marcature al 38'. Nanninga pareggiò all'82'. Si andò ai supplementari e al 105' Mario mise a segno un altro gol e un'altra doppietta. Bertoni chiuderà i conti al 116' e l'Argentina vincerà il Mondiale per la prima volta nella sua storia.
Mario non riuscirà più a ripetere una stagione fantastica come quella, sebbene tutti i suoi titoli arriveranno dopo il 1978. Eccetto quelli personali.
Ma fu grazie a quella stagione e a quel Mondiale che Maradona disse "Kempes mise il calcio argentino sulla mappa del calcio mondiale".
Perché se voi andate a vedere il Mondiale del 1978 e andate a vedere il capocannoniere e il miglior giocatore e l'attaccante titolare della Nazionale vincente, troverete un solo nome, anzi, quattro: Mario Alberto Kempes Chiodi.
Nato il 15 luglio 1954. Auguri!


sabato 14 luglio 2012

Cose da calciomercato

In questo calciomercato ho capito delle cose: la Roma è stupida (più che altro Zeman, va' là) e che il PSG non esiste più, esiste il P$G.
Non ho capito il motivo di mandare via Borini (a calci in culo, tra l'altro) per poter tentare di arrivare a Destro, su cui c'è mezza Serie A. Già il calcio italiano ha pochi giovani talenti, se poi si mandano via pure quei pochi che ci sono, siamo a posto.
E approposito di giovani talenti, un altro (presupposto) giovane talento, è Marco Verratti. Il Pescara ha detto che lo voleva tenere un altro anno, lui diceva che tifa Juve, ma che ci sarebbe andato l'anno prossimo, poi si è detto che sarebbe rimasto in definitiva. Poi Leonardo ha detto "Massì, dovrei avere 15 milioni dello sceicco, me lo date?". Uno, due, tre... sì. Sì e no ci avranno messo un giorno a rispondere. Se poi hanno allungato la trattativa fatti loro. Ma ormai siamo alla fine... meno male.
Dicevo del P$G. Avevano offerto 43 milioni per Thiago Silva. Tutto fatto. Poi arriva Berlusconi e dice no. Tutto bene, quel finisce bene. Peccato non fosse ancora finita.
Leonardo torna alla carica e ne offre 65, sia per Thiago che per Ibra. Adesso voi direte: ne hanno rifiutati 43 per Thiago, figuriamoci se ne accettano 65 per privarsi dei due calciatori più forti che hanno in rosa.
Detto fatto. Berlusconi, cambia versione e da no passa a "Almeno risparmio 150 milioni" (più di 170, in realtà). L'unico ostacolo era Ibra. Voleva più soldi rispetto ai 9 offerti dal PSG... povero. A quanto pare lo sceicco riesce ad accontentarlo e Ibra e Thiago andranno al PSG, lasciando il Milan in una situazione tragi-comica.
Il PSG si sarà pure trasformato in P$G, ma il Milan e Berlusconi, hanno fatto la loro grossa parte. Coerenza Silvio, coerenza...

L'attaccante di Mourinho


"I'm not one of the bottle, I think I'm the Special One".
Così si presentava Mourinho al Chelsea nel 2004. E poteva anche permetterselo. Era il Campione d'Europa in carica. Campione con il Porto. E l'anno prima aveva anche vinto la Coppa UEFA, sempre con il Porto.
Sapete chi era l'attaccante di quel Porto? Un certo Vanderlei Fernandes Silva, meglio noto come Derlei.
Nel 2003 è stato praticamente lui a far vincere la UEFA al Porto, grazie ai suoi 12 gol in tutta la competizione e soprattutto alla doppietta in finale e a quel gol al 115' che ha imposto il risultato sul 3a2 portando il trofeo in Portogallo. In Champions le cose andranno diversamente e farà solo 3 gol, contribuendo comunque alla storica vittoria.
Nelle prime due stagioni al Porto fa 36 gol in 67 partite, non male. Nell'ultima "riesce" a segnare 0 gol in 18 partite.
Ma la storia di Derlei inizia prima. Inizia in Brasile, sua terra natia.

Nel 1994 esordisce con l'America, poi va al Guarani, al Madureira e infine União Leiria.

Gioca tre anni con il club portoghese per poi trasferirsi al Porto nella stagione successiva dove ritrova Mourinho, che lo aveva allenato la stagione prima.
Gioca bene in Campionato, benissimo in UEFA. L'anno dopo segna 12 gol in sole 18 presenze nella SuperLiga.
Dopo non aver segnato nessuna rete nell'ultima stagione, passa alla Dinamo Mosca. Dove segna 24 gol in 33 partite in due stagioni.
Torna in Portogallo, al Benfica, dove segna la miseria di un gol.
Lo Sporting Lisbona lo prende a parametro zero. Segna 11 gol in due stagioni.
Non rinnova, causa poco impiego, e torna in Brasile, al Vitoria.
Non si ambienta e fa un altro ritorno: al Madureira, che sarà il suo ultimo club nel 2010.
Ma negli annali del calcio, quando si guarderà la finale di Coppa UEFA 2003, il 45' e il 115' avranno una cosa in comune: sono i minuti di gioco in cui Derlei segnò la doppietta che consegnò la Coppa al Porto.




















Il prezzo di un Mondiale



14 luglio 1969 - 20 luglio 1969. Le date non vi dicono niente. Neanche a me, a dire la verità. Sono l'inizio e la fine di una guerra. Sì, una guerra, durata appena sei giorni. Protagonisti: El Salvador e Honduras.
Bene, non voglio parlarvi della guerra in sé. Voglio parlarvi di quello che successe prima. Perché, dato che non l'ho ancora detto, questa guerra è stata, anche, rinominata "Guerra del calcio".
Allora, partiamo con una premessa: non fu certo quello che successe un mese prima a scatenare la guerra, ma di certo, fece la sua parte.
Dunque, 1969. Cosa ci sarebbe stato l'anno dopo? Ma certo, il primo Mondiale svolto in un paese centroamericano, il Messico. Ciò fu una grande cosa per gli altri paesi: dato che il Messico era il più forte, altre Nazioni avrebbero avuto la possibilità di qualificarsi.
Ma, cosa c'entrano Honduras ed El Salvador? Allora, le squadre partecipanti alle qualificazioni furono 12, divise in 4 gironi da 3. Le prime passavano a delle semifinali, da cui sarebbero uscite le finaliste che si sarebbero contese il posto.
Le semifinali furono Haiti-USA e Honduras-El Salvador. Haiti sconfisse gli USA e andò in finale.
Quello che successe nell'altra semifinale dovrebbe essere raccontato meglio.
L'andata si gioca in Honduras l'8 giugno 1969. I tifosi di casa fanno di tutto per disturbare gli avversari, sia che si trovino in hotel, allo stadio, che sia giorno, o che sia notte. Bucano pure le ruote del loro pullman.
La partita finirà 1a0 per l'Honduras in un clima tesissimo dove i salvadoregni saranno ancora presi di mira da varie intimidazioni.
Il 15 giugno si gioca il ritorno. È la stessa cosa di una settimana prima, a parti invertite. Gli honduregni pensano a tornare a casa (vivi) e si lasciano travolgere per 3a0. La regola del numero di gol segnati non esisteva ancora. Quindi, anziché 3a1 per El Salvador, era 1a1. Si rese necessario un altro massac... scusate, un'altra partita. Stavolta in campo neutro. Non si sa se fosse un bene o un male.
Al mitico Stadio Azteca (che sarà scena della Partita del secolo l'anno dopo), si giocò lo spareggio il 26 giugno. Finì 3a2 per El Salvador dopo i tempi supplementari.
Le due tifoserie vennero al contatto e Città del Messico diventò un campo di battaglia.
Alla fine El Salvador sconfisse pure Haiti e andò ai Mondiali messicani. Ma a che prezzo?

mercoledì 11 luglio 2012

La terza volta non si scorda mai



Madrid, Estadio Santiago Bernabeu. Circa 90000 persone, giù di lì. Una partita di calcio. Forse, qualcosa in più di una partita. Anzi, sicuramente. Era la finale del Campionato Mondiale del 1982. Era Italia-Germania.
Tre pareggi contro Polonia, Perù e Camerun nel primo girone. Poi, in quello di qualificazione alle semifinali, due vittorie. Contro Argentina e Brasile. E soprattutto la seconda è entrata nella leggenda, grazie alla tripletta di Paolo Rossi che ha sancito il 3a2 finale. Poi la Polonia in semifinale, 2a0 e ancora doppietta di Rossi.
Poi, la finale. Era Italia-Germania, una delle più belle rivalità di sempre. I tedeschi volevano vendicarsi della semifinale del 1970 in Messico, l'Italia voleva tornare Campione del mondo dopo 44 anni di astinenza. Un'eternità!
Chiunque avrebbe vinto, si sarebbe portato a casa il terzo titolo. Ma la Germania aveva qualcosa in più: aveva già vinto la Coppa del Mondo FIFA. L'Italia no, "solo" la Rimet nel 1934 e 1938. Un motivo in più per portarsi a casa la Coppa.
Rossi, Tardelli e Altobelli. 1, 2 e 3a0. Poi il gol di Breitner per il 3a1. Finirà così e poco importa che Cabrini avesse sbagliato un rigore nel primo tempo. L'Italia era Campione del mondo per la terza volta nella sua storia, raggiunto il Brasile.
Al ritorno a Roma, il comandante dell'aereo, fece un giro sopra la città e permise ai giocatori di vedere la gente che festeggiava. Il Presidente Pertini, che era con loro sull'aereo, esclamò "Guardate cosa avete combinato!".
Negli States, hanno l'American Dream. Quella formazione realizzò l'Italian Dream. Molto più del 2006, il 1982 viene ricordato come festa. Una festa "Nazionale". Della Nazionale.
Era l'11 luglio 1982. Sono passati 30 anni, ma, per chi le ha vissute, le emozioni sono sempre le stesse. E oggi come allora, è sempre festa.


martedì 10 luglio 2012

Talento incompiuto

Ma ve li ricordate gli Europei del 2000?
Chi è stato il capocannoniere? Ah, sì, ce ne furuno due: Savo Milosevic e un certo Patrick Kluivert.
Lasciamo stare lo jugoslavo. Prendiamo l'olandese.
Io ho detto "un certo", ma se avete un minimo di conoscenza calcistica, lo dovete per forza conoscere.
Ma invece, noto che sempre meno lo conoscono. "Hey, ma te lo ricordi Kluivert?" "Chi?"
Allora, facciamo un passo indietro e torniamo al 1994, anno in cui Patrick esordì con l'Ajax.


Nel club dei Lancieri ha un ottimo avvio, a soli diciotto anni ha messo segno 18 gol in Eredivisie e contribuito alla vittoria in Champions League siglando due gol.
L'anno dopo continua a far bene e mette a segno 21 gol totali.
Dopo tre stagioni i gol saranno 50 e le partite 97.
Ma Patrick è giovane e vuole fare esperienza all'estero in un club importante. E arriva la chiamata del Milan. La sua stagione in rossonero si rivela un flop, segna solo 9 gol in 33 partite e se ne mangia il triplo. Diciamo che ha anticipato Robinho.
Ma la classe è sempre la stessa ed è sempre tanta. Così, il Barcelona, punta su di lui e al primo colpo arriva la Liga. Trascorre sei stagioni in Catalogna, non riuscendo mai a dimostrare il suo vero valore. Un vero talento incompiuto del calcio olandese.


Dal 2004 al 2008, gioca in un club diverso per ogni stagione, trasferendosi a Newcastle, Valencia, Eindhoven e Lille.
Nel mentre ha pure giocato nella Nazionale Olandese (da dove ero partito), segnando 40 gol in 79 presenze, che ne fanno il top scorer degli Oranje. Numeri da grande campione.
E i numeri non finiscono qui. Già detto dei 50 gol all'Ajax e i 9 al Milan, vanno aggiunti i 120 in 255 partite con il Barça.
Con i club sono 200 in 468 partite.
Nel suo palmares figurano tre Eredivisie (due con l'Ajax, una con il PSV), due Supercoppe Olandesi (Ajax), una Liga con il Barça, oltre ai tre trofei internazionali vinti con l'Ajax nel 1995: Champions League, Supercoppa e Intercontinentale.


Kluivert si è ritirato nel 2008. Molti non se lo ricordano più, io sì e dico che questo è uno dei più grandi talenti inespressi del calcio olandese. Se lo hanno subito accostato a Cruijff e Van Basten, un motivo ci sarà ed avevano ragione.
Il 10 luglio 1976 nasceva Patrick Kluivert, auguri campione!

L'allenatore del mondo

Ho sempre ammirato i giramondo. Quelli che si mettono sempre alla prova in qualsiasi ambiente e condizione.
Uno di questi era sicuramente Béla Guttmann. Un uomo che incarna in pieno l'ex Impero Austroungarico. Nato a Budapest il 27 gennaio 1899 e morto a Vienna il 28 agosto 1981, nelle due capitali di Ungheria e Austria.
Ma non voglio parlarvi di geografia.
Voglio parlarvi di quello che c'è stato in mezzo questi 82 anni.
Guttmann ha iniziato come calciatore. Mestiere che ha fatto per ben 16 anni, riuscendo a vincere i Campionati in Ungheria e Austria.
Ma non è da calciatore che quest'uomo ha fatto la storia. Lui è stato uno dei più grandi allenatori del secolo scorso, cambiando il calcio in Brasile e portando il Benfica allo splendore europeo.


Ha allenato 20 squadre di club, oltre alla Nazionale Ungherese e a quella Austriaca.
La storia di Guttmann è lunghissima. Inizia ad allenare nel 1933, per smettere 40 anni dopo, nel 1973.
In mezzo, non molti trofei, ma un grande allenatore. Duro e consapevole dei suoi mezzi, che non guardava in faccia a nessuno. Un Mourinho all'antica.
La svolta di Guttmann arriva nel 1956, quando, allora Direttore Tecnico della Honved, fece un tour in Brasile. La Rivoluzione che c'era in Ungheria, convinse Guttmann a rimanere lì, assumendo l'incarico di allenatore del San Paolo.
Ed è qui che ha cambiato le regole del calcio brasiliano.
Trasformò il 3-2-3-2 ungherese in un 4-2-4 (cosa già fatta dalla stessa Ungheria) e ottenne una macchina da guerra brasiliana. Non tanto nel suo San Paolo, quanto nella Nazionale che poi usò il 4-2-4: il Brasile del 1958, Campione del Mondo.
Arrivò quindi l'affermazione in Portogallo, con tre Campionati vinti di fila: uno con il Porto, gli altri due con il Benfica. Ed è proprio con il Benfica che farà la storia.
Nel 1961, dopo cinque vittorie consecutive del Real Madrid, il suo Benfica vince la Coppa Campioni... bissando il successo l'anno successivo.
A fine stagione se ne andrà, dicendo che la terza stagione è sempre la morte di un allenatore.
Ma non se ne andò senza dire niente, lanciò un maledizione. "Da qui a cento anni nessuna squadra portoghese sarà due volte campione d'Europa ed il Benfica senza di me non vincerà mai una Coppa dei Campioni." Il Porto vincerà la Coppa nel 1987, non bissandola l'anno dopo. Così come nel 2004.
E il Benfica dal 1962 in avanti, perderà cinque finali.
Guttmann tornerà al Benfica, ma con scarsi risultati. Verrà pure accusato di aver dopato i suoi giocatori. Ipotesi non del tutto falsa, dato che un suo giocatore del Porto è morto in campo nel 1973, mentre era allenato da Guttmann (un altro ritorno).
1973? Vi ricorda qualcosa? Già. Dopo questo fattaccio, Guttmann si ritirerà.
Ma le ombre del doping, non cancelleranno mai quello fatto in carriera da Guttmann. Capace di dire al Brasile con quale modulo vincere, di vincere tre Campionati portoghesi consecutivi con le due squadre rivali e di vincere due Coppe Campioni di fila con il mitico Benfica.
E poi, grande veggente. La maledizione, dura ancora adesso.
Complimenti, Mister Guttmann!

lunedì 9 luglio 2012

Una pugnalata al cuore


Il calcio inglese è bellissimo.
Ho preso due stagioni a caso (1973/74 e 1974/75) e ho guardato la 21esima posizione. C'erano Manchester United e Chelsea.
Proprio il Manchester United che adesso sta dominando la Premier League.
Ma nel lontano 1974, fu retrocesso in Second Division. Dopo soli sei anni dalla conquista della Coppa Campioni.
Ma cosa successe, di preciso, 38 anni fa?
La risposta sta in un uomo e in una calda giornata di luglio di 50 anni fa. Il suo nome? Denis Law. Ed esattamente 50 anni fa, firmava il suo contratto con il Manchester United.


Law, lascerà lo United nel 1973, dopo 404 presenze e 237 gol. E dopo aver formato, insieme a George Best e Bobby Charlton, uno degli attacchi più forti di sempre.
Nel 1973, Law passa al Manchester City. Dove resterà una sola stagione, segnando 12 gol in 26 partite.
Ma il gol più importante, lo segnò ad aprile del 1974, in un infuocato Derby di Manchester all'Old Trafford. Dopo 82' di 0a0, Francis Lee, passa la palla a Law che, spalle alla porta, si inventa un tacco, lasciando Stepney di sasso e infilando l'1a0. La vittoria del Birmingham sul Norwich ha condannato lo United alla retrocessione dopo 37 anni. E il gol di Law, ha aiutato molto la disfatta dei Red Devils.
Proprio lui che aveva dato tutto allo United. Proprio lui, adesso, li condannava.
"Dopo 19 anni in cui ho dato tutto per segnare gol, ne ho segnato uno che non volevo fare". Così, commentò Law dopo la partita.
Dopo il gol, non si mosse, rimase fermo. Mentre mezza città rideva e l'altra piangeva.


Mentre la Luna di Manchester era sempre più blu e di Diavoli non si vedevano proprio.

Solo il Brasile sopra di noi


9 luglio 2006 - 9 luglio 2012. Sono passati sei anni da quando l'Italia si è laureata Campione del Mondo per la quarta volta. A 24 anni di distanza dalla terza, nel 1982.
Battuta la Francia 6-4 ai rigori. Ed è proprio su questa che voglio concentrarmi.
Sei anni dopo la finale degli Europei del 2000, l'Italia si è presa la sua rivincita.
E se l'è meritato. Perché perdere una partita in cui vincevi fino a 8 secondi dalla fine, per poi perderla al golden gol, è davvero ingiusto. Soprattutto dopo che Del Piero si era mangiato il gol del 2a0 che avrebbe, di fatto, consegnato la Coppa all'Italia. Ma si sa com'è finita: Del Piero ha sbagliato e Wiltord, prima, e Trezeguet, dopo, hanno punito l'Italia.
Ma sei anni dopo, le cose sono andate diversamente. Del Piero, in semifinale contro la Germania, ha fatto gol dalla stessa posizione in cui sbagliò agli Europei (come aveva sottolineato in diretta Bergomi, l'unico calmo tra gli italiani). Ma il bello, è stato che il rigore, che alla fine è risultato decisivo, l'ha sbagliato Trezeguet. Proprio lui che ci aveva punito sei anni prima.
Ma 'sta volta, le cose sono andate diversamente e l'Italia si è presa la sua rivincita contro la Francia. Con tanto di interessi... volete mettere un Europeo con un Mondiale?

sabato 7 luglio 2012

Il Miracolo di Berna

Vi è mai capitato di dire "Adesso faccio questa cosa!" e poi, puntualmente, dimenticarsene?
Beh, è quello che è successo a me.
Era il 3 luglio e mi son detto: bene domani fanno gli anni Di Stefano e Boniperti e saranno 58 anni dal Miracolo di Berna. Facciamoci dei bei post.
Per i calciatori, fatti. Per la partita... ehm.
Rimedio subito. Anche se con qualche giorno di differenza.
Non sapete cos'è il Miracolo di Berna? Iniziate a leggere...


Prendete questi 22 nomi e fissateli nella testa. Sono i 22 nomi dei calciatori protagonisti della finale del Mondiale svizzero del 1954, con finale, appunto, a Berna.
Perché Miracolo?
Nella fase a gironi, l'Ungheria sconfisse la Germania 8a3. La finale finì 3a2 per la Germania. Qualcosa di strano, vero? Un Miracolo!
Adesso, vi chiedo un'altra cosa. Prendete ciò che ho scritto sull'Olanda del '74 e portatelo indietro di 20 anni e mettete Ferenc Puskas al posto di Cruijff. Ecco fatto. Avete ottenuto una delle squadre migliori di sempre.
Prendete una nazione, un senso di libertà, un'idea calcistica. Prendete l'allenatore, Gusztav Sebes, prendete la sua idea di rivoluzionare il calcio. Basta tre punte. A noi ne bastano due. Più precisamente, giocava con il 3-2-3-2 (qui non reso molto bene), introducendo un ruolo molto di moda ultimamente: il falso 9, rappresentato nel migliore dei modi da Hidegkuti. E poi Czibor, abile ala, e Kocsis, implacabile goleador, realizzatore di 75 gol in 68 partite in Nazionale. Ma soprattutto lui, Ferenc Puskas. Il leader, l'anima. 84 gol in 85 partite. Un mostro sacro del calcio.
Le avete prese queste informazioni?
Bene. Adesso pensate ad una partita di un girone di un Mondiale. E pensate ad un'Ungheria-Germania che finisce 8a3. Senza troppe storie.
Le loro strade si ritrovano in finale. Dopo solo 8', l'Ungheria è in vantaggio 2a0, grazie a Puskas e Czibor.
Poi, tra il 10' e il 18', Morlock e Rahn rimettono incredibilmente le cose apposto.
All'Ungheria viene negato un rigore e annullato un gol. Sia il rigore che il gol c'erano.
Ma cosa importa? Tanto Rahn aveva già fatto la sua doppietta, che voleva dire 3a2 Germania. A 6' dalla fine.
Finiva così il sogno ungherese.
Ancora la Germania sulla strada delle squadre, all'apparenza, imbattibili. Perché l'Ungheria era veramente invincibile: arrivava alla finale da 32 partite senza sconfitta.
Ma il brutto successe dopo. Con i giocatori tedeschi gialli e malati. E l'arbitro Viana, radiato qualche mese dopo per corruzione.
Un triste epilogo, che da una spiegazione al Miracolo di Berna.
Ma intanto, il titolo, è della Germania e nessuno potrà darlo a quella mitica Ungheria.
Forse troppo forte, per vincere quel dannato Mondiale.

Puskas, Grocsis, Lorant, Hidegkuti, Bozsik, Zakarias, Lantos, Buzansky, Toth, Kocsis, Czibor
L'Aranycsapat (la Squadra d'Oro)

Quando i secondi sono meglio dei primi


Mourinho, in un'intervista disse: "Chi si ricorda contro chi Muhammad Ali vinse il titolo di Campione?"
Per sottolineare il fatto che arrivare secondi fosse inutile e che non serve per entrare nella mente della gente. Io voglio dimostrare il contrario.
Era il 7 luglio 1974. Si giocava la finale del Mondiale tedesco. I padroni di casa, affrontavano la mitica Olanda del Calcio Totale di Rinus Michels. Tutti davano gli uomini di Helmut Schon per spacciati. Gli olandesi ne erano anche troppo convinti.
Partiamo dall'immagine. Partiamo dal fallo di Vogts su Cruijff in area di rigore.
Dopo solo 1', l'Olanda aveva già la possibilità di portarsi in vantaggio. E Neskeens non tradisce.
E' passato 1', la Germania non ha toccato ancora il pallone e l'Olanda è già in vantaggio.
"Ormai ha vinto", avranno pensato tutto.
E come dargli torto? Fino a quel momento, l'Olanda, aveva espresso un calcio meraviglioso. Un calcio in cui tutti sapevano fare tutto. Non a caso, è stato rinominato Calcio Totale. Un calcio che aveva, in Johann Cruijff, il suo profeta, il suo simbolo.
Ma torniamo all'Olanda. Capace di battere 4a0 l'Argentina, 2a0 la Germania Est (che aveva battuto la Germania Ovest nel primo girone) e pure il Brasile Campione 2a0. Insomma, una squadra che aveva stupito tutti. Una squadra che aveva giocato splendidamente. Fino al 1' della finale. Poi stop. Il vuoto. La consapevolezza di essere i più forti e il voler credere che tutto sia già finito, per specchiarsi nella propria immagine per i successivi 89'. Invece no. Non puoi fare così contro la Germania.
Un calcio di rigore di Breitner e un gol del solito Gerd Muller. 2a1 Germania.
E finirà così. Con le lacrime degli olandesi, increduli difronte alla realtà. Avevano perso ed era solo colpa loro. Non chè la Germania fosse scarsa, era Campione d'Europa in carica e semifinalista Mondiale. Ma quell'Olanda, era di un altro pianeta. Era troppo forte per chiunque... tranne che per sé stessa. Battuta dal suo stesso senso di onnipotenza che le ha fatto perdere la ragione sul più bello, quando ormai i giochi erano fatti.
E vi parlavo pure di Cruijff. Dopo la prima azione, Vogts non lo perse di vista e gli fece passare un brutto pomeriggio.
Ora non è il momento di parlare di Cruijff (ce ne sarà), è il tempo di ricordare quella drammatica finale ed è tempo di ricordare il Mondiale dell'Olanda del Calcio Totale. Perché se è vero che i tedeschi vinsero la Coppa, è anche vero che non sempre le Coppe fanno la storia.



E dire che un'altra opportunità l'avrebbe avuta quattro anni dopo, in Argentina, ancora contro i padroni di casa. Persero anche lì. E non c'era Cruijff, stanco dello spogliatoio e indignato da ciò che successe nel '78 nel paese sudamericano.
Ma questo è il continuo di questa storia.
Oggi vi ho detto dell'Arancia Meccanica: la squadra più bella e meno vincente di sempre.

venerdì 6 luglio 2012

If man is 5 and Devil is 6, then is 7 God?


Qualche giorno fa, sono stati resi noti i numeri dei calciatori del Manchester United per la prossima stagione. I nuovi acquisti Powell e Kagawa, avranno il 25 e il 26. Prima di Powell, il 25 lo aveva Antonio Valencia, che adesso avrà il 7, succedendo a Michael Owen, ma soprattutto succendendo a grandi campioni, ancora oggi indimenticati dai tifosi Red Devils.
Dicevo di Michael Owen. Arrivato all'Old Trafford nel 2009, come riserva di lusso in un attacco già ben assortito, si è ritrovato a dover scegliere un numero che lo soddisfasse. E scelse il 7. La sua avventura a Manchester è durata tre anni e nella mente dei tifosi, rimarrà il gol al 94' bel Derby del 2010. Per il resto molto ombre, come era prevedibile.
Ma vi parlavo pure di grandi campioni. E allora, facciamo un passetto indietro nel tempo e arriviamo ai mitici anni '60.
Gli anni '60 sono un'epoca d'oro per il Manchester United, pronto a riprendersi dopo il disastro aereo di Monaco di Baviera del 1958. L'allenatore è sempre lo stesso, Matt Busby, che dopo i Busby Babes degli anni '50, vede formarsi un altro gruppo di ragazzi che gli regalerà ciò per cui ha sempre lottato: la Coppa Campioni, nel 1968.
Ma chi erano le stelle di quel Manchester United? Sicuramente, la porta era protetta dall'affidabile Stepney, aiutato da Nobby Stiles e Bill Foulkes. Ma il vero punto di forza era l'attacco. Quel mitico trio d'attacco noto come "Holy Trinity" dalle parti di Manchester: Denis Law, Bobby Charlton e George Best.
E proprio di quest'ultimo voglio parlarvi. Lui era il 7 di quel Manchester. Il giocatore più abile, più imprevedibile, più estroso. Era il miglior giocatore dell'epoca. E il Pallone d'Oro vinto nel '68, lo dimostra. Come quelli vinti da Law nel '64 e Charlton nel '66, dimostrano il potere del Manchester United dell'epoca.
Alla fine lascerà nel 1974, dopo undici anni, il Manchester United per incomprensioni con il nuovo allenatore. Ma le gioie che ha dato, non si potranno dimenticare.

La frase dice tutto. Best era un genio del pallone. 


Di Best potrei stare qui a parlarvi per ore, anche senza annoiarvi. Perché la magia che questo giocatore trasmetteva in campo era unica. E la si può percepire anche in qualsiasi racconto su di lui.
Per questo, fra i fans, lui è uno dei preferiti. In un sondaggio fatto recentemente, infatti, è risultato terzo. Dietro solo all'eterno Ryan Giggs e Eric Cantona.
Già, Eric Cantona. O, per meglio dire, The King.
Arrivò nel 1992 allo United e ci restò fino al 1997. Cinque stagioni e quattro titoli. L'unica stagione in cui non vinse, fu sospeso otto mesi dall'attività agonistica per aver dato un calcio ad un tifoso avversario. Basta questo per descrivere Cantona. Uno che non si tirava mai indietro. Un idolo della folla. Segnava, faceva assist, aiutava la squadra. Un leader in campo. Premiato con la fascia da capitano nella sua ultima stagione.
Nel sondaggio di cui vi ho parlato sopra, è arrivato secondo. Ma in uno fatto per eleggere il calciatore preferito del secolo, è arrivato primo, sbaragliando la concorrenza di moltissimi altri giocatori che hanno  fatto la storia della United.
Ma Cantona era così. O lo ami, o lo odi. E quelli dello United, lo amano. Tanto da cantare ancora cori per lui all'Old Trafford.


Ma prima di Cantona, l'idolo era un certo Bryan Robson. Uno che rappresenta a pieno quello che il Manchester United ha dovuto passare, prima di diventare quello che tutti voi oggi conoscete, cioè un grande club.
Si pensa allo United come una squadra che ha sempre macinato successi nella sua lunga storia. Invece no. Nel 1993, quando vinse il Campionato, lo fece 26 anni dopo l'ultima volta, nel 1967. Grazie al trio d'attacco di cui vi parlavo prima.
Robson la vinse la Premier League nel '93 e anche nel '94.
Ma non voglio parlarvi di questo. Perché Robson è stato leader e numero 7, dello United che non vinceva. Per oltre 10 anni ha sudato e lottato per portare lo United alla vittoria. E, alla fine, ce l'ha fatta.
Ma se non ci fosse stato Robson, nessuno penserebbe allo United come una squadra che vince sempre.


Bene, siamo arrivati ai giorni nostri.
C'è stato Best, c'è stato Robson, c'è stato Cantona e c'è stato Owen.
Mancano due tasselli. Molto simili tra di loro, che uniscono Cantona e Owen. Il 1997 al 2009.
Il primo tassello si chiama David Beckham.
Presa la 7, dopo il ritiro di Cantona e dopo aver dato il 10 a Sheringham, Beckham compie l'ultimo passo verso la maturità calcistica. Divenendo idolo della folla e giocatore fondamentale nelle geometrie dell'allenatore, Sir Alex Ferguson.
Al Manchester vince tutto e si impone come uno dei più forti della sua generazione.
Dopo vari litigi con Ferguson, viene ceduto al Real Madrid. Ma tutti i tifosi Red Devils, avranno sempre un bellissimo ricordo di Becks.


Quando Beckham se ne andò, Ferguson trovò subito il suo sostituto. Non tanto nella posizione, quanto nell'immagine.
Nell'estate del 2003, arriva all'Old Trafford un certo Cristiano Ronaldo. Voleva il 28, come allo Sporting Lisbona. Ferguson si impunta e dice "Tu avrai il 7".
Detto fatto.
Allo United, Cristiano Ronaldo, diventa quello che tutti ammiriamo adesso. Un giocatore eccezionale, spinto dalla carica che tutto l'Old Trafford gli dava. Un leader unico. Facendo un discorso di tattica, con Ronaldo in campo, lo United giocava con un 9-1. Tutti a fare gioco di squadra, con Ronaldo che finalizzava.
Best disse che ci sono stati tanti giocatori segnalati come il nuovo lui, ma quando gli dissero di Ronaldo, disse che era un complimento per lui.
In fondo questo è Cristiano Ronaldo. Un giocatore assurdo. Da quando è a Madrid più di allora. Ma i fans dello United, non si son certo dimenticati del loro pupillo.


E arriviamo a Valencia, dunque.
L'anno scorso ha fatto una stagione praticamente fantastica. Guardiola disse che è l'ala più forte al mondo. Come dargli torto. Valencia allo United ha fatto tutto quello che si può pretendere: corso, coperto, iniziato l'azione, segnato, fatto assist. Tutto.
Speriamo che il peso del 7 non sia un problema. Ma, del resto, l'ha scelto lui. E ha detto che sarà un onore, mica un problema.


giovedì 5 luglio 2012

See you soon


I tifosi dei Rangers ci hanno creduto fino alla fine. "Il nostro club non morirà mai". E invece...
Invece il club è fallito. Dopo 139 anni di storia, il Rangers Football Club cesserà di esistere.
In fretta e furia è stato organizzato il The Rangers Football Club, per permettere, almeno in parte, la continuazione delle storia nella Scottish Premier League. Servivano 8 voti su 12 per approvare la partecipazione della squadra al prossimo campionato. Invece niente. Sono arrivati 10 no. Niente Premier League l'anno prossimo per i Rangers. Adesso dovranno riniziare dal fondo e con un nuovo nome. Un disastro per il club professionistico più titolato al mondo. Ben 114 trofei vinti. E oggi, voglio immergermi con voi, per esplorare la storia di questo club e dei suoi trofei.

Il Rangers Football Club è stato fondato nel 1872 (ufficialmente 1873).
I primi passi arrivano nel 1877 e 1879, con le due finali di Coppa perse contro il Vale of Leven.
Nel 1890 fondano, insieme ad altri club, la Scottish FA. E vincono subito il primo dei loro 54 Campionati.
Già alla fine del XIX secolo, hanno in bacheca tre Campionati e tre Coppe di Scozia.
Dal 1900 al 1954, ci saranno solo due allenatori: William Wilton, al quale succede il suo vice, Bill Struth nel 1920.
Con loro due, i Rangers, vivono un periodo magico. Wilton porta a casa 7 titoli e una Coppa di Scozia.
Struth vince 18 Campionati, 10 Coppe di Scozie e due Coppe di Lega. Centrando il primo treble scozzese nel 1949.
Dopo Struth, arriva Scott Symon, che porta i Rangers fuori dalla Scozia, per aprirgli le porta dell'Europa. Nel 1961, diventa la prima squadra britannica ad arrivare in finale di una Coppa europea, perdendo la finale di Coppa delle Coppe contro la Fiorentina. Nel 1967 arriva ancora in finale, perdendo contro il Bayern Monaco.
Ma la Coppa delle Coppe arriva nel 1972, grazie a Willie Waddell, contro la Dinamo Mosca. Ad oggi, resta l'unica competizione internazionale per la squadra di Glasgow.
I successi in Scozia continuano e si arriva al 1989. Quando Graeme Souness, vinse il primo dei suoi due titoli consecutivi. Dopo di ché, lasciò il timone a Walter Smith. Dal 1990 al 1997, Smith vince 7 titoli consecutivi che, sommati ai due di Souness, fanno 9. E ciò vuol dire aver eguagliato il record del Celtic tra il 1966-74.
Smith lascia. Arriva Advocaat che promette successi in Europa, che non arrivano. Arriva invece il sesto treble del 1999 e un double l'anno dopo.
Il nuovo millennio inizia com'era finito il secolo scorso: con vittorie.
Alla fine i titolo sono 54, 33 le Coppe di Scozia e 27 quelle di Lega. Più la Coppa delle Coppe del 1972.
Questo il palmares dei Rangers.


Ma sicuramente, la cosa per cui mi mancherà di più questa squadra, è l'Old Firm. Il Derby di Glasgow fatto con l'altra squadra della città: il Celtic.
Il primo è datato 1888 e finì 5a2 per il Celtic. Da allora se ne sono giocati 370 in totale. Ed è diventata una delle partite più seguite al mondo. Con quel fascino che solo la Scozia ha.


Molto probabilmente, dovremo aspettare qualche anno prima di rivedere un Old Firm.
Ma in attesa del prossimo Derby, io ho provato a raccontarvi la storia del club più titolato al mondo.
E se siete veri amanti del calcio, potete anche non saperne molto di calcio scozzese, ma un po' di tristezza per la scomparsa dei Rangers, vi dovrebbe venire. Proprio come è venuta a me.
See you soon Rangers.

mercoledì 4 luglio 2012

L'uomo della Juve



"La Juve, il sogno della mia vita. La sognavo davvero. Perché io, che portavo all'occhiello il distintivo bianconero, avevo in quegli anni un solo desiderio: giocare una partita di serie A con la maglia bianconera.
Me ne sarebbe bastata una, ero sicuro, per essere felice per sempre. È andata meglio: in campionato ne ho giocate 444.
Ho fatto la mia parte senza sacrifici.
Perché ho dato quello che avevo dentro. Sono un uomo felice".
La Juventus ritiene Giampiero Boniperti il suo uomo più rappresentativo, la sua bandiera.
E forse, è giusto dire così. Perché l'esperienza di Boniperti alla Juventus, va oltre i 15 anni di permanenza, oltre i 5 scudetti e le due Coppe Italia, oltre il titolo di cannoniere, oltre le 469 partite, oltre i 188 gol. Perché Boniperti è stato alla Juventus facendo tutto quello che era possibile fare, esigendo sempre e solo una cosa: vincere.
Nel 1946, un diciottenne Boniperti, esordisce con la Juventus, facendo 6 presenze e realizzando 5 gol in tutta la stagione. Dal 1947 sarà titolare inamovibile della Vecchia Signora, di cui diventerà record-man di presenze e gol. Prima che lui stesso, molti anni dopo, trovi il suo degno sostituto.
Nel 1948, vince la classifica marcatori a 20 anni. La stagione dopo arriva il primo dei cinque scudetti. Il secondo arriverà nel '52. Gli ultimi tre saranno leggenda.
Nel 1957, a Torino arrivano due mostri sacri dell'epoca: il Gigante Buono gallese, John Charles e il Re del Tunnel Omar Sivori.
Boniperti-Charles-Sivori. Un trio d'attacco mostruoso, che porterà la Juventus alla vittoria in Serie A nel   1958, 1960 e 1961. Oltre alla Coppa Italia nel 1959 e ancora nel 1960.
Alla Juve collezionerà 469 partite e 188 gol in totale. Di cui 444 in Serie A condite da 178 gol.
La partita di ritiro di Boniperti è entrata di diritto nella storia del calcio italiano.
È un Juventus-Inter, datato 10 giugno 1961. La Juventus è già Campione e si gioca per recuperare una partita finita in protesta. E, per protesta (scusate la ripetizione), Angelo Moratti, presidente dell'Inter, decise di mandare in campo la Primavera, da dove sbuca un giovane Sandro Mazzola.
La partita finisce 9a1 per la Juventus. Sivori va giù pesante, entrando nel record, insieme a Silvio Piola, come unico giocatore ad aver segnato 6 gol in una partita di Serie A.
Ma la leggenda arriva al fischio finale. Tutti festeggiano, qualcuno contesta. Ma Boniperti, molto pacatamente, si toglie le scarpe, trova il magazziniere e gli dice "Tienile tu. A me non servono più".
Così finiva la storia di Giampiero Boniperti alla Juventus, almeno come giocatore.



Vi parlavo di un uomo che ha fatto tutto. Così è stato. Dal 1971 al 1990, diventa presidente della Juventus, vincendo nove Scudetti, tre Coppe Italia, una Coppa delle Coppe, due Coppe UEFA, una Supercoppa UEFA, una Coppa Intercontinentale e una Coppa Campioni.
Dal 1991 al 1994 è stato amministratore delegato. Prima di diventare presidente onorario nel 2006.


Parlavo di record. E lui è stato il record-man di gol della Juventus fino a poco tempo fa. Fino a che, un certo Alessandro Del Piero, non battesse tutti i record.
Ma, a lui, poco importa. Del resto, è stato lo stesso Boniperti a portare Alex alla Juve.
"Mi ricordo quando andai a vederlo e ho subito intravisto che aveva la stoffa del campione. Però sono anche stato fortunato nella scelta. Ci sentiamo ancora spesso e sono molto contento per lui. Finché è Alex a eguagliarmi, sono felice..."


Grande campione pure fuori dal campo.
E oggi ho voluto rendergli omaggio. Perché è pure vero che ha giocato negli anni '40, '50, '60, ma non è giusto che venga dimenticato così uno degli attaccanti-ala più forti che il calcio italiano abbia avuto.
Oggi compie la bellezza di 84 anni. Auguri Giampiero!

Il migliore

Questo giocatore è diverso da tutti gli altri. Gli altri li ho conosciuti grazie alle mie letture, ai film, tramite la tv, ecc... Ma questo è diverso. A mio padre non piace il calcio. L'unico a cui piace un po' è mio nonno. E proprio lui, 8-9 anni fa mi parlò di questo giocatore di origini italiane.
Dunque, proprio per questo, oggi vorrei fare qualcosa di diverso.
Parto subito con tutti i titoli vinti da questo straordinario campione.
Con l'Argentina gioca e vince la Copa America nel 1947, segnando 6 gol.
Con il River Plate, vince due Campionati Argentini nel 1945 e nel 1947, anno in cui diventa capocannoniere con 27 gol
Nei Millonarios, vince tre volte il Campionato Colombiano nel 1949, 1951 e 1952 e una Coppa di Colombia nel 1953. Nel 1951 e nel 1952 vince pure la classifica marcatori con 31 e 20 gol.
Ma è nel Real Madrid che entra nella leggenda. Otto volte vincitore della Liga, nel 1953-1954, 1954-1955, 1956-1957, 1957-1958 e dal 1960-1961 al 1963-1964 e una Coppa del Re nel 1962.
Si conferma miglior marcatore in ben cinque anni: nel 1954 con 27 gol e poi ininterrottamente dal 1956 al 1959, prima con 24 gol, poi con 31, ancora con 19 ed infine con 23.
Finita qui? Macché! Vi parlavo di leggenda. E questo signore qui è una leggenda d'Europa.
Vincendo la Liga nel 1955, ha la possibilità di partecipare alla prima edizione della Coppa Campioni.
Il Real Madrid spazza via tutti e si aggiudica il trofeo contro lo Stade Reims a Parigi per 4a3. E neanche a dirlo, segna il primo gol dei Blancos e apre la rimonta.
Chi vince la Coppa, ha la possibilità di riparteciparvi l'anno dopo anche senza vincere il proprio Campionato. Ed è proprio quello che capita al Real Madrid, che non si fa certo pregare, vincendo ancora nel 1957. Non contenti, vincono ancora nel 1958, 1959 e 1960. Facendo un record: nessuna squadra è ancora riuscita a vincere più di tre edizioni di fila. Loro ne hanno vinte cinque!
Dopo lo Stade Reims, toccò alla Fiorentina essere battuta, 2a0. Sapete chi aprì le marcature? Proprio il giocatore di cui vi sto parlando.
Nel 1958, fu il turno del Milan. Sapete chi segnò il primo gol del Real Madrid, l'1a1? Proprio lui. Alla fine il Real vincerà 3a2.
Nel 1959 tocca nuovamente allo Stade Reims. Il Real vince 2a0 e il nostro giocatore segna il secondo gol.
Nel 1960 in finale ci arriva l'Eintracht Francoforte... purtroppo per loro! Finisce 7a3 ed entra nei record come la finale di Coppa Campioni/Champions League con più reti. E pensare che erano andati pure in vantaggio. Poi il nostro giocatore, insieme ad un suo amico ungherese, mettono le cose a posto. Tripletta del nostro giocatore, quaterna per il suo amico, che entra anche lui nei record: nessuno ha più fatto quattro gol in finale.
Nelle edizioni del 1957-58 e 1961-1962, vince la classifica marcatori con 10 e 7 gol.
Nel 1957 gli viene assegnato il secondo Pallone d'Oro della storia. Il suo secondo Pallone d'Oro gli verrà dato due anni dopo, nel 1959. E nel 1989 gli viene dato il SuperPallone d'Oro, come giocatore più forte di tutta la storia del calcio europeo.
Se non avete ancora capito di chi stia parlando, prego, potete uscire dalla pagina.
Se invece l'avete capito appena vi ho parlato di River Plate e Millonarios, vi prego di aggiungervi a me in una standing ovation per questo giocatore. La Saeta Rubia. Alfredo Di Stefano.


Ho sempre fatto una distinzione tra "geni del calcio" e "campioni". Il nostro Alfredo appartiene di sicuro alla prima categoria. Lui era un genio del pallone. Faceva cose che gli altri non pensavano nemmeno di poter fare.
Lui era un attaccante moderno. Aveva il 9, ma si muoveva come se fosse un 10. Lui era il primo a pressare la squadra avversaria. Quando gli altri attaccavano, te lo ritrovavi subito nella tua trequarti per difendere, prendere palla all'avversario, correre via verso la porta avversaria, ingaggiare duelli con gli avversari o facendo 1-2 con i compagni. Ma la sostanza, alla fine, era sempre la stessa. Segnava. E segnava, segnava, segnava.
Lui stupiva di continuo. Facendo colpi di tacco dal nulla (quando il colpo di tacco a momenti nemmeno esisteva) o finte di corpo impensabili per l'epoca. O magari i suoi famosi doppi passi.
Era un attaccante completo, moderno. Lo trovavi in ogni zona del campo. Pronto a difendere, impostare e finalizzare. Se Cruijff è stato il miglior artefice del Calcio Totale olandese degli anni '70, negli anni '50 e '60, Di Stefano era già avanti anni luce. Lui ha reinventato la posizione di attaccante.
Per questo è stato un genio del calcio. Lasciate stare i premi, i gol, lasciateli stare. Alfredo Di Stefano ha preso il calcio dell'epoca, si ci è integrato e lo ha migliorato dall'interno, portandolo ad un livello successivo.


Dicevo che segnava. Segnava tantissimo. 332 gol in 372 partite totali con il Real Madrid. 10 gol in 25 presenze di Campionato con l'Huracan. 66 presenze e 45 gol con il River Plate. Nei Millonaros segnò 267 reti in 292 gare totali.


Oltre ad avere un ottimo fiuto del gol e un ottimo tiro, destro o sinistro non faceva differenza, aveva pure un velocità straordinaria. Da far invidia ad un centometrista dell'epoca. Non a caso fu nominato la Saeta Rubia, la freccia bionda.
Ma la sua vera forza era il fisico. Non per l'altezza (1,75m), ma per come lo sfruttava e per la forma fisica che aveva. In allenamento si dannava più di tutti per migliorare il proprio fisico, fino al punto di rendersi instancabile e di continuare a giocare ad altissimi livelli fino a 38 anni. Prima di andare all'Espanyol e ritirarsi ufficialmente all'età di 40 anni.
E approposito di allenamenti, voglio farvi leggere un pezzo detto da Alfredo Di Stefano:
«Per diventare bravi giocatori occorre pensare giorno e notte al pallone. I giovani che vogliono fare solo quattrini senza fatica o svolgere altri mestieri, anche soltanto per distrarsi, mentre giocano da professionisti, sbagliano, perché infallibilmente toglieranno, anche senza accorgersene, tempo prezioso al loro mestiere. Io non sono mai stato molto disciplinato nella vita privata, ho bevuto botti di vino e ho mangiato quintali di pesce fritto, ma tutto questo mi serviva per stordirmi e non pensare ad altro. E dormire. Ma in sostanza io mi sono mortificato in campo in allenamenti durissimi, mentre nei giovani d'oggi c'è la tendenza ad allenarsi poco e a non saper soffrire. Gli allenamenti duri, massacranti, estenuanti, sono indispensabili ad un campione, formano il campione. A me hanno dato l'ossatura. Il campione deve essere ambizioso ogni giorno di più, ogni giorno più ambizioso del giorno prima».
Per sottolineare questa sua grande dedizione, vi propongo anche un aneddoto di quando giocava in Colombia.
"Giocando in Colombia con il Millionarios, scagliò un tiro potentissimo dai 30 metri colpendo la traversa. Il pallone fu conquistato da un avversario che partì in contropiede, Di Stefano lo inseguì e glielo soffiò, prese a correre come un treno, chiese il triangolo a Pedernera ed infilò il portiere avversario.
Pedernera, un grande del suo tempo, gli si avvicinò e gli disse: Alfredo, questo gioco ci dà da mangiare, cerca di non ridicolizzarlo".


Ma tutta la fortuna che ebbe nei club, non la ebbe in Nazionale. Anzi, nelle Nazionali. Infatti, giocò sia per la sua patria, l'Argentina, sia per la Colombia, dove si rifugiò a giocare dopo lo sciopero dei calciatori argentini, infine nella Spagna, dove è andato ad un passo dalla partecipazione ai Mondiali cileni del 1962.
Nel 1950, l'Argentina si rifiutò di partecipare al Mondiale brasiliano. Dunque, niente Mondiale per Alfredo.
Preso il passaporto colombiano, giocò la miseria di quattro partite. Ma non partecipò ad alcun Mondiale.
Nel 1956 diventa cittadino spagnolo. Pronti via ed è subito convocato. Gioca 31 partite e segna 27 reti. La Spagna si qualifica al Mondiale cileno e Di Stefano è convocato.
Ecco, ci siamo. Alla bella età di 36 anni, il grande Alfredo, può esordire nella massima competizione mondiale e scrivere il suo nome nella storia.
Tutto bello. Troppo bello. Qualche mese prima dei Mondiali, i muscoli provati da tante battaglie fanno harakiri e negano a Di Stefano di poter andare ai Mondiale. E chissà, magari negano anche di poter superare ufficialmente Pelé e Maradona come migliore di sempre.



E se alcuni fanno ancora la battaglia su chi sia il migliore tra Pelé e Maradona, io sto dalla parte di Pelé. Non perché penso sia il migliore, ma per quello che disse una volta. "La gente discute di Pelé e Maradona. Per me il migliore è stato Di Stefano".
Uno talmente bravo con il pallone, da farmi piangere ogni volta che vedo quei video in bianconero.
Se il mio calciatore preferito è in assoluto George Best, io mi inchino davanti a questo professionista.
Perché, come dicevano, "Era come avere 2 giocatori in tutti i ruoli quando c'era Di Stefano. Ma in porta non era un granché".


Un video di Di Stefano, "comparato" al suo amico ungherese di cui vi parlavo. Quel Ferenc Puskas, spesso troppo dimenticato. Ma anche lui se la cavava bene. Lo stesso Alfredo dice che Puskas, gridava "gol" prima di tirare. E alla fine "gol" lo urlava tutto lo stadio.
Ma questa è un'altra storia.
Oggi ve ne ho raccontata un'altra. Quella del grande Alfredo Di Stefano. Nato il 4 luglio 1926 e che oggi fa 86 anni. Auguri Saeta Rubia!

martedì 3 luglio 2012

Inaspettatamente Torres


Fernando Torres capocannoniere a Euro 2012. Alzi la mano chi ci avrebbe scommesso un solo euro. Invece El Niño si è dimostrato micidiale in zona gol, segnando tre gol in 189 minuti. La media di uno ogni 63'. Numeri da grande bomber, che gli fanno riprendere stima dopo due annate non molto positive sotto porta.
Torres è in buona compagnia a tre gol. Infatti è accompagnato da Gomez, Balotelli, Mandžukić, Ronaldo e Dzagoev. In questi casi si guardano gli assist. E solo Torres e Gomez ne hanno fatto uno. Poi i minuti. E Torres batte nettamente il tedesco, aggiudicandosi la Scarpa d'Oro di questa edizione e bissando la doppietta Campione-Cannoniere del suo compagno Villa quattro anni fa. Giusto a ribadire il dominio spagnolo.
Ma non si vive di soli gol. Quindi, la UEFA ha deciso di formare la miglior squadra dell'Europeo, prendendo 23 giocatori da tutte e 16 le Nazionali.
Portieri: Buffon, Casillas, Neuer;
Difensori: Pique, Coentrão, Lahm, Pepe, Ramos, Jordi Alba;
Centrocampisti: De Rossi, Gerrard, Xavi, Iniesta, Khedira, Busquets, Özil, Pirlo, Xabi Alonso;
Attaccanti: Balotelli, Fabregas, Ronaldo, Ibrahimovic, Silva.
Insomma, 23 che farebbero le fortune di qualsiasi squadra del mondo.
Questa è stata un'edizione con molti gol, ben 76 in 35 partite giocate, la media di 2,45 gol/partita.
Il cannoniere totale è stato Huntelaar con 12 gol. Tutti nel girone di qualificazione.
Intatti i record di Michel Platini, che nel 1984 vinse il titolo di Campione d'Europa con la sua Francia nell'Europeo casalingo, segnando 9 gol. Tutt'ora record come maggior numero di marcature in una singola edizione e come gol totali nelle fasi finali dell'Europeo. Dove al secondo posto c'è il mitico Alan Shearer con 7 gol. Ronaldo e Ibra sono a 6, mentre Rooney a 5. Ora come ora, solo loro potrebbero impensierire il record di Platini.
Allora l'appuntamento è rinnovato al 2016, in Francia. Dove, magari, Ibra si sarà stufato della Nazionale e Ronaldo e Rooney saranno due allegri trentunenni.
Ma mancano ancora quattro anni. Meglio concetrarsi sul presente e rendere di nuovo onore alla Spagna Campione di tutto.