martedì 30 dicembre 2014

Sui momenti più belli della mia vita

Il Vocabolario Treccani indica il termina passione come "sentimento intenso e violento (per lo più di attrazione o repulsione verso un oggetto o una persona), che può turbare l’equilibrio psichico e le capacità di discernimento e di controllo" e ancora "inclinazione vivissima, forte interesse, trasporto per qualche cosa." È perciò evidente che le passioni non sono qualcosa né di positivo né di negativo e che è bene non giudicare quelle altrui. Anzi, bisogna convivere con le proprie passioni come meglio ci conviene. Grazie alle passioni si riesce senza dubbio a trascorrere meglio la nostra vita, perché esse saranno sempre lì accanto a noi. 

Tranquilli, so che dovrei parlare di calcio, quindi vi accontento. Prima, però, occorre fare una piccola premessa. Mi è stato dato il dono della sintesi - non so da chi, probabilmente dai miei genitori, fatto sta che è un qualcosa che mi appartiene. Cosa più importante è il fatto che l'esser sintetico lo evito spesso: vuoi perché mi piace collegare questo con quell'altro, vuoi perché la ricerca della perfezione è qualcosa che mi è rimasto solo nella scrittura, vuoi perché mi piace sviluppare il tutto nella maniera più completa possibile. Insomma, potrei passare tre vite ad essere sintetico, ma preferisco viverne una in modo totale. Se dovessi parlare, davvero, dei momenti più belli della mia vita, il 90% del post vi indurrebbe a giocare a golf. Quindi, preferisco concentrarmi sul 10% restante, che parla di calcio, ma non solo, e non parla di tutto ciò che è il calcio per me. Prenderò semplicemente un'immagine. Ecco, ho deciso di essere sintetico, perché ve lo meritate voi che mi leggete... sperando ci sia qualcuno.



Questa foto rappresenta un bacio tra due idee esattamente complementari. Non sono due uomini a baciarsi, sono la vittoria e il motivo della vittoria, con alle spalle la sconfitta. 
16.50£: questo è quanto percepiva Gary Neville a settimana nel suo primo contratto con il Manchester United. Ma chi è Gary Neville? Innanzitutto, perché è doveroso dirlo, è l'uomo a sinistra nella foto. E poi è un ragazzo che ha sempre sognato di giocare con il Manchester United e di concludere la carriera all'Old Trafford. Ecco perché la firma su quel contratto ed ecco perché la decisione di non lasciare mai il club inglese, nonostante proposte importanti di altre squadre europee. Il suo unico obiettivo era giocare e vincere tutto con la maglia dei Red Devils. E ci è riuscito.
L'altro, con il cognome ben visibile, è Paul Scholes. Come Neville è nato nella Greater Manchester, ovvero sia la contea dove è situata, appunto, Manchester. Anche lui ha dato tutto per lo United, anche lui ha giocato tutta la carriera lì, anche lui voleva vincere tutto, anche lui ci è riuscito. Insieme ad un gruppo di ragazzi hanno portato ai vertici del calcio inglese ed europeo il Manchester United di Sir Alex Ferguson. Era la classe del '92. Ma non è di questo che voglio parlarvi.

Torniamo alla foto, perché ci sono quei due aspetti fondamentali di cui vi ho detto prima. Era la metà di aprile del 2010, il Manchester United faceva visita ai cugini del City. Il derby è il derby e quei due sanno benissimo cosa significhi, ne hanno giocati a decine. Alcuni bellissimi, come quello d'andata di quella stagione: un 4-3 con gol all'ultimo secondo di Michael Owen, uno che è diventato una bandiera del Liverpool, ma che ha vinto allo United. Gli scherzi del destino. Ah, anche quello di ritorno non scherza. I derby, si sa, sono spesso bloccati però. E in quell'aprile del 2010 accadde proprio questo. Ormai la partita si avviava verso uno 0-0 inutile, che avrebbe allontanato lo United dal Chelsea e dal quarto titolo consecutivo. Appunto, quarto, il che vuol dire che ne erano già stati vinti tre di fila, quindi quella era una grande squadra, con grandi campioni. Uno su tutti, quel giorno, brillò: Paul Scholes. All'ultimo secondo dei tre minuti di recupero, il centrocampista inglese colpì la palla di testa, mandandola in rete. I Red Devils vinsero 1-0, ma ciò non bastò per fermare i Blues di Ancelotti. Niente quarto titolo consecutivo, ma questo ancora nessuno poteva saperlo. Tanto meno Gary Neville, uno che ha lo United nelle vene. Dopo il gol andò dal suo compagno e lo baciò. Un gesto carico di passione, che solo chi sa cosa sia la passione può dare e ricevere. Perché Neville e Scholes sono due che sanno cosa sia il Manchester United e che hanno lottato per renderlo uno tra i club migliori del pianeta. Quella vittoria nel derby, arrivata in quel modo, era dunque per loro l'apoteosi del giocare per quella squadra, di tifare per quella squadra. Dietro, il giocatore del City, ovviamente, è sconsolato. È il volto della sconfitta, è l'altra faccia della passione. Ognuno la vive a modo suo e nessuno deve giudicare quelle degli altri, no? Già, è proprio così. E se pensassimo, per un solo attimo, a cosa sarebbe la nostra vita senza le nostre passioni, ci accorgeremmo che non solo sarebbe vuota, ma che non saremmo nemmeno più noi stessi, saremmo snaturati, privi di una delle parti più importanti della nostra essenza. È grazie alle passioni che viviamo i momenti più belli della nostra vita. Io ho scelto di vivere attraverso il calcio e vi assicuro che non potrei essere più felice, perché è grazie ad esso che ho vissuto alcuni degli attimi più intensi e significativi.

martedì 16 dicembre 2014

Gli eroi non nascono, si creano... ma non diteglielo


L'Arsenal è così, Arsene Wenger è così: di giocatori fatti non ne vuole proprio sapere, li vuole modellare e portare al massimo partendo da zero. Capita però, a volte, che alcune persone siano destinate ad entrare nella leggenda, semplicemente perché ce l'hanno nel sangue e quello è il loro destino, senza bisogno di essere plasmati troppo. Qualche anno fa anche Wenger si arrese all'evidenza e sentenziò il tutto con una frase entrata ormai di diritto nella storia: "Dio non dà tutto agli uomini, ma ad Henry ha deciso di dare tante cose." Già, Henry. L'allenatore di Strasburgo, sia nella vita sportiva che in quella personale di Henry, ha significato molto. Lo ha fatto esordire nel Monaco a 17 anni nel 1994, ma poi le loro strade si divisero. Wenger finì addirittura in Giappone, Henry iniziò a farsi valere tra i professionisti: 141 partite e 28 gol con la squadra del Principato e le prime gioie con la Nazionale, con cui vinse il Mondiale del 1998. 

Succede, talvolta, che gli eroi cadano e tornino più umani. Lo sbaglio è, appunto, un qualcosa di assolutamente umano e normale, ma ciò che differenzia gli eroi è la loro capacità di rialzarsi e guardare nuovamente tutti dall'alto verso il basso. Henry con il Monaco era uno dei migliori giocatori in Francia, ma la prova decisiva sarebbe stata quella oltre i confini nazionali. I monegaschi come punto di partenza, la Juventus come consacrazione definitiva. Però nemmeno agli eroi le cose vanno sempre bene. Anzi, quando si è abituati alla "quasi perfezione", il minimo errore diventa letale. A Torino Titì vive uno dei momenti più bassi della sua carriera, se non il più basso. Il problema della sua collocazione in campo, il grattacapo che già al Monaco lo aveva limitato, torna prepotentemente. Ancelotti, appena arrivato sulla panchina Bianconera, pare quasi non saper che farsene di questo francese mulatto veloce come il vento. Lo piazza sulla fascia, ma la storia non cambia. Henry e la Juve divorziano nel giro di pochi mesi, mezza stagione è quanto basta a tutti per capire che le due parti non sono fatte l'una per l'altra. Lo stesso Ancelotti, qualche anno dopo, ammise di aver preso un'autentica cantonata reputando il francese un giocatore di fascia, non vedendo in lui tutte le sue straordinarie qualità da centravanti.

Gli eroi non nascono, si creano. Ma anche se ci nascono, hanno il bisogno di una guida spirituale. Perché se è vero che Wenger deve qualcosa ad Henry, è anche vero che quest'ultimo deve praticamente una carriera all'allenatore. Arsene ci ha sempre visto quelle "tante cose" dategli da Dio in Titì. La fiducia, però, bisogna anche saperla ripagare. E gli eroi, in quanto a fiducia, se ne intendono. Il nuovo Henry, quello in versione londinese, è nuovo, fresco, rigenerato, è l'incarnazione del nuovo millennio che è ormai alle porte. Finalmente viene fatto giocare nella posizione che più gli si addice, quella del centravanti puro. In coppia con Dennis Bergkamp - un altro non capito in Italia - fa paura a tutte le difese della Premier League. Nella prima stagione mette subito a segno 26 reti (fino ad allora erano 31 tra Monaco e Juventus in cinque stagioni) e nell'estate del 2000 vince l'Europeo con la Francia. Nel 2000 e nel 2001 arriva solo secondo in campionato, mentre nel 2002 l'Arsenal riesce ad interrompere il dominio del Manchester United, diventando campione d'Inghilterra. È solo l'anticipazione di quello che arriverà due stagioni più tardi. Con giocatori del calibro di Ashley Cole, Sol Campbell, Viera, Pires, Bergkamp, in cui Henry è la vera punta di diamante, la squadra di Londra riesce nell'impresa di vincere il campionato senza perdere nemmeno una partita, un traguardo mai raggiunto né prima né dopo in Premier League. Semplicemente: Invincibles.


Gli eroi hanno una casa, ma non una fissa dimora. 17 maggio 2006, Stade de France, Parigi. Finale della 51° edizione della Champions League, la prima volta per l'Arsenal, che sfida il Barcellona. Il trascinatore della squadra, neanche a dirlo, è ancora Henry. Purtroppo non basta: Eto'o e Belletti ribaltano il vantaggio di Campbell, riportando la coppa in Catalogna dopo quattordici anni. In quella stagione, comunque, vinse per la quarta il titolo di capocannoniere della Premier League, stabilendo anche il primato come unico giocatore ad aver segnato 20 o più gol per cinque stagioni di fila. La stagione dopo, però, Henry se ne va dall'Arsenal, perché quella coppa persa in maniera beffarda a Parigi, la deve vincere. 

"Se non puoi batterli, unisciti a loro", avrà pensato. Wenger lascia andare via il suo pupillo per 24 milioni di euro e Titì si accasa al Barcellona. Ci rimane tre stagioni, giusto il tempo di vincere due volte la Liga, una Coppa del Re, una Supercoppa di Spagna, una Supercoppa Europea, un Mondiale per Club e ovviamente quella tanto ambita Champions League. Sempre da protagonista, ovviamente.
Gli eroi hanno anche l'umiltà di farsi da parte e capire che certi livelli e certi ritmi non gli appartengono più. Ma non sarebbero veri eroi, se lasciassero tutto così, di punto in bianco. Bianco come la nuova maglia della carriera di Henry, quella dei New York Red Bulls. È l'inizio di una nuova giovinezza negli States, dove il francese continua a deliziare le platee con numeri di alta scuola.

Gli eroi hanno una casa, e gli mancherà sempre. 9 gennaio 2012, Emirates Stadium, Londra. Una nuova casa, sconosciuta. È il minuto 68 di una partita di FA Cup tra l'Arsenal e il Leeds United. L'uomo che ha fatto impazzire i tifosi dei Gunners per otto anni è finalmente tornato e lo fa alla sua maniera. Entra e segna. In quel momento l'Emirates esplode e tutti i veri amanti del calcio hanno, seppur in minima parte, esultato insieme ai tifosi dell'Arsenal. Arriveranno altre sei partite e un gol, l'ultimo della sua carriera in Premier League, l'ultimo con la maglia dell'Arsenal. 

Gli eroi sono quelli che ti tolgono il fiato, ma ora sono io a chiedervi di trattenerlo per leggere queste statistiche. Miglior marcatore dell'Arsenal con 228 gol in 377 gare, miglior marcatore dei Gunners in Premier League con 175 reti in 258 presenze, miglior marcatore europeo della società con 42 centri in 86 partite. La sua casa era Highbury, il leggendario stadio in cui l'Arsenal ha passato gran parte della sua storia e in cui Henry ha segnato 114 volte. Se ciò non fosse abbastanza, si possono aggiungere i già citati gol con Monaco e Juventus, i 49 con il Barcellona, i 52 con i Red Bulls e i 51 con la Francia, di cui è il massimo cannoniere. E, ovviamente, le oltre 900 partite tra i professionisti. Le due Scarpe d'oro vinte nel 2004 e nel 2005 sono la testimonianza della sua prolificità sotto porta, sancita dai 411 gol in carriera. I cinque riconoscimenti come calciatore francese dell'anno, le sei inclusioni nella squadra dell'anno in Inghilterra e le cinque in quella della UEFA, i tre titoli di giocatori di giocatore dell'anno della FWA e i due della PFA, sono il giusto riconoscimento delle sue straordinarie qualità. Non a caso Pelé lo ha incluso nel FIFA 100, mentre nel 2008 è entrato a far parte della Hall of Fame del calcio inglese. I venti trofei vinti tra Monaco, Arsenal, Barcellona, New York e Francia - fra tutti il Mondiale, l'Europeo e la Champions League - hanno reso grande il palmares di un giocatore meraviglioso. Unica pecca, quel Pallone d'oro che il francese è riuscito solo a sfiorare nel 2003 (secondo) e nel 2006 (terzo). Ma va bene così ad uno che "potrebbe prendere palla in mezzo al campo e segnare un gol che nessun altro al mondo potrebbe segnare." Perché Henry ha fatto del gol la sua arte e del campo da gioco la sua tela. In questi vent'anni di carriera ha dipinto traiettorie impossibili e fatto divertire milioni di tifosi in tutto il mondo. 


Ora inizia un nuovo capitolo della sua vita, quello di opinionista. Perché gli eroi non nascono, né si creano, ma si trasformano. Proprio come Thierry Henry è riuscito a fare nella sua leggendaria carriera.
Au revoir Titì, merci pour tout.