lunedì 27 gennaio 2014

Dallo Special One al Chosen One: il viaggio di Mata Juan

Londra-Manchester solo andata, grazie. Un viaggio verso nord, il nord dell'Inghilterra. Secondo me questo ragazzo è alla ricerca del nord sin da bambino. Il suo nord si chiama Manchester United, ma ha dovuto girovagare un po' per cercarlo, trovarlo, avvicinarsi e prenderlo. Ha deciso di raggiungere la sua meta nel momento più delicato, più difficile per lo United. Settimi in Premier League, fuori dalle coppe nazionali e con un 3-1 incassato nell'ultimo turno di campionato proprio contro il Chelsea, la ex squadra di Mata. Forse, si è sentito vicino alla squadra proprio per questo: anche per Juan le cose non stavano girando bene questa stagione, relegato sempre in panchina da José Mourinho, che gli ha preferito i vari Oscar e Willian. È anche per questo che un giocatore capace di segnare 18 gol nelle sue prime due stagioni di Premier League, sia ancora a secco in quella corrente. È anche per questo che il miglior giocatore delle ultime due annate del Chelsea abbia deciso di lasciare una squadra in cui era re fino a maggio. Con l'arrivo dello Special One, le cose sono diventate tristi per Mata. Ha capito di non essere più lui il fulcro del gioco del Chelsea, ha capito che cambiando aria avrebbe fatto la cosa migliore. La cosa strana, però, è il fatto di lasciare una squadra lanciatissima per il titolo, per una che naviga in zone meno nobili, costretta a non sbagliare più nulla per non perdere il treno dell'Europa. Ed è qui che il calcio torna un po' più umano, perché se è vero che è diventato il giocatore più caro del Manchester United ed è vero che guadagnerà fior di milioni, è anche vero che quando cerchi il tuo nord, se capisci che puoi arrivarci, non ti lasci sfuggire l'occasione; anche se ciò vuol dire rivoluzionare i piani della tua stagione e iniziare a combattere per altri obiettivi. Sono certo che oltre a questo, Mata abbia lasciato il Chelsea in vista del Mondiale. Essere abbandonato in panchina non è un'ottima pubblicità. Allo United, invece, potrà ritagliarsi tutto lo spazio che vorrà. La squadra di Manchester gli servirà come trampolino di (ri)lancio per conquistare un posto da titolare con la Spagna. Mata, dal canto suo, servirà alla squadra di David Moyes come ancora di salvezza per risollevare una stagione non proprio positiva. Certo, un giocatore non può cambiare una squadra (soprattutto in quella zona del campo, che era già la meglio assortita all'Old Trafford), ma dal punto di vista psicologico potrà influire molto. E con Rooney già proiettato verso un super rinnovo, questo mese di gennaio potrebbe regalare ancora sorprese ai tifosi dei Red Devils.
Il viaggio di Mata è anche, e soprattutto, un addio a José Mourinho, lo Special One. Un addio fatto per abbracciare David Moyes, il Chosen One. Due soprannomi importanti, ma con una grande differenza: il primo se lo è auto attribuito, mentre il secondo ha ricevuto la benedizione di Sir Alex Ferguson. Una benedizione importante. Anche per questo Mata è diventato Special Juan, in attesa che le cose speciali le faccia vedere in campo. Con la maglia rossa dei Red Devils, ovviamente.



sabato 25 gennaio 2014

Pianista belga



Reputo la bandiera del Belgio come una delle più belle al mondo: tre strisce verticali con un notevole impatto visivo. Del resto, nero, giallo e rosso non sono tre colori che passano inosservati. Passa inosservata, invece, la Nazionale di calcio belga, di certo non una delle migliori al mondo. Ultimamente, però, sono spuntati fuori degli ottimi elementi (Hazard, Kompany, Lukaku per dirne alcuni) che stanno seriamente facendo sognare i tifosi dei Rode Duivels. Rode Duivels è il soprannome del Belgio e vuol dire Diavoli Rossi. Ah sì? Ma i Diavoli Rossi (Red Devils) sono anche quelli del Manchester United, giusto? Esatto. E, tornando agli ottimi elementi che stanno venendo dal Belgio, se ne trova uno proprio nella rosa della squadra allenata da David Moyes. Il giocatore risponde al nome di Adnan Januzaj ed è un centrocampista nato in Belgio, ma di origini albanesi, che a soli 18 anni è già diventato quasi titolare in uno dei più grandi club al mondo.
Bill Shankly, leggendario allenatore del Liverpool, disse che «Il calcio è come un pianoforte: otto persone lo caricano in spalla e tre sanno suonare quel dannato strumento». Il giovane Adnan invece ha deciso di fare tutto solo: con le pesanti assenze di Wayne Rooney e Robin van Persie, è stato il belga a caricarsi la squadra sulle spalle, cercando di fare il meglio possibile. Già, il meglio possibile, perché quest'anno allo United le cose non vanno benissimo. Settimi in campionato e già fuori dalla FA Cup, con una semifinale di Capital One Cup persa in maniera beffarda. Januzaj ha giocato quella partita, sbagliando anche uno dei quattro rigori non messi a segno dai suoi. Una sola realizzazione su cinque dagli undici metri basterebbe da sola a far capire quanto questa stagione sia nera per i Red Devils. Ovviamente il povero Adnan, nonostante ce la metta tutta, non può fare miracoli, ma rimane, comunque, una delle poche note positive in questa annata negativa del Manchester United.
Nero, giallo e rosso. Tre colori a cui Januzaj sembra essere davvero legato: rosso come lo United, nero come questa brutta stagione. Ma il giallo? Il giallo è l'oro, i trofei. I tanti trofei che Adnan spera di riuscire a vincere con questa squadra. Magari anche con la Nazionale. Certo, prima bisogna sceglierla. Belgio e Albania aspettano, ma con la possibilità di giocare per i Three Lions tra qualche anno, la tentazione di aspettare c'è, eccome. Intanto il ragazzo di Bruxelles deve solo pensare a giocare come sa e confermare le belle cose espresse in questi primi mesi di professionismo. Il resto arriverà dopo, sperando solo che il peso del pianoforte lo lasci ad altri, perché lui ha tutte le carte in regola per poterlo suonare. E anche molto, molto bene.


martedì 14 gennaio 2014

Quel pallone sempre meno d'oro

Nel 1956 venne ideato un premio dalla rivista France Football per indicare il giocatore che più si era distinto nell'anno solare. Così è stato (più o meno) fino al 2009, quando le grandi menti della FIFA hanno deciso di unire il Pallone d'oro con il FIFA World Player, creando il Pallone d'oro FIFA. Risultato: una sudditanza verso Lionel Messi. Le differenze: prima votavano solo i giornalisti, ora anche i calciatori. Dati alla mano, ci ritroviamo con Cesare Prandelli e Gianluigi Buffon che hanno nominato Andrea Pirlo miglior giocatore del 2013. Ovvio, sono scelte personali, sia chiaro, ma un po' di parte sembrano.
"Per 50 anni questo premio ha tenuto conto di quello che è stato vinto sul campo. Ora invece si basa sulle prestazioni complessive dei giocatori ed è un problema, anche se Ronaldo è un grande Pallone d'Oro. Qualcosa è cambiato da quando il premio è sotto l'egida della FIFA". Queste sono le parole di Michel Platini, presidente UEFA, in merito al "nuovo" formato per l'assegnazione del Pallone d'oro. Io non voglio stare qui a polemizzare, perché avrei troppo da dire, ma lascio parlare i dati. 

Votazione giornalisti: 
Frank Ribery 523 voti
Cristiano Ronaldo 399 voti
Lionel Messi 365 voti

Votazione giornalisti + allenatori e capitani:
Cristiano Ronaldo 1365
Lionel Messi 1205
Frank Ribery 1127

Per carità, Cristiano Ronaldo è stato devastante l'anno scorso, ma cosa ha vinto? Il titolo di capocannoniere della Champions League, e basta. Messi ha saltato tante partite per infortunio nell'ultima parte dell'anno, risultando tra l'altro neanche troppo incisivo nella prima parte. E Ribery? E Ribery se lo meritava, senza se e senza ma, perché è stato un assoluto protagonista nell'anno d'oro del Bayern Monaco. 
Quindi, ora, io dico: cari allenatori e capitani, tornate ad allenare e a giocare, che alle votazioni per eleggere i migliori ci pensano i giornalisti, che forse ne capiscono un po' più di voi. 
In ogni caso, complimenti a Cristiano Ronaldo. Ma Messi secondo non lo digerisco proprio. Sembra quasi un insulto. E lo sapete perché? Perché se Ronaldo non avesse fatto quella tripletta contro la Svezia, molto probabilmente l'argentino avrebbe vinto il premio per la quarta volta consecutiva, aggiungendolo al Pallone d'oro del 2009, per un totale di cinque affermazioni di fila. Dunque, vedete voi se è giusta una cosa del genere.
Per la cronaca, Cristiano Ronaldo diventa il primo portoghese a vincere due volte il premio, staccando Eusébio e Figo. Ancora complimenti al numero 7 del Real Madrid, senza dubbio un grandissimo giocatore che ha dimostrato tutto il suo valore e la sua concretezza nel 2013, ma un anno così Ribery non lo farà mai più. Semplicemente perché è stato quasi perfetto. Unica consolazione per il francese, il fatto di aver vinto il UEFA Best Player in Europe Award, un premio che incarna i veri principi del Pallone d'oro, contando però la stagione e non l'anno.
Ci vediamo l'anno prossimo, sperando di non vedere più queste brutte sorprese, come Messi secondo.


lunedì 13 gennaio 2014

Stand up



Ieri sera stavo ascoltando l'album "Stand Up" dei Jethro Tull. Come tutti saprete, "stand up" vuole dire alzarsi, ma c'è anche un altro significato: "stand-up comedy" è un termine che viene usato per indicare i cabarettisti. Ecco, ora abbiamo due strade: alzarsi ed essere presi in giro. Stavo ascoltando quell'album e posso assicurarvi che era la più perfetta sintesi di Sassuolo-Milan. Da una parte una squadra che si è alzata, dall'altra una che è stata letteralmente presa in giro.
New Day Yesterday: è la traccia numero uno dell'album. Ieri è stato un nuovo giorno, per certi versi. O forse no, perché se è vero che il Sassuolo ha vinto con una grande rimonta, è anche vero che non stupisce più di tanto aver visto il Milan perdere in questo modo e contro i Neroverdi. Quindi no, non è stato un nuovo giorno ieri. E, anzi, mi permetto di cambiare le parole del testo: "It was a new day yesterday, but it's an old day now", lo facciamo diventare "It was an old day yesterday, but it's a new day now". Ovviamente oggi è un giorno nuovo, perché è stato esonerato Massimiliano Allegri. Ovvio, non una sorpresa, c'era solo da capire il quando, cioè oggi. "It's a new day now".
Back to Family: quarto brano dell'album. E' la sfida del Milan: Clarence Seedorf. L'olandese potrebbe tornare ai Rossoneri, ma da allenatore. "I think I enjoyed all my problems, where I did not get nothing for free.Oh, I'm going back to the family". Appunto, tornare alla famiglia. Sarà una scommessa: sia per il Milan che per lo stesso Seedorf. Siamo sicuri che un ritorno in famiglia, adesso, possa far bene?
Nothing is Easy: sesto brano. Il titolo dice già, di per sé, tutto. "Just try hard and see why they're not worrying me" questa invece è la frase che più rappresenta Allegri: lui ci ha provato, non importandosene troppo degli altri ed è per questo che se ne va a testa alta. A Seedorf, o a chiunque arrivi, lascio il titolo: nulla è facile, figuriamoci allenare questo Milan.
Passiamo alla partita ora. La riassumo in due parole: Domenico Berardi. Quattro gol al Milan per dimostrare di non essere un semplice predestinato e per centrare i gol numero 8, 9, 10, 11 in sole 14 presenze di Serie A. Per il resto è il solito Milan. Robinho e Balotelli avevano illuso tutti, ma poi l'uragano Berardi si è abbattuto sulla squadra di Allegri, mandandolo alla deriva. 
Il Sassuolo si è alzato, il Milan è stato ridicolizzato. Ancora una volta.



martedì 7 gennaio 2014

Morte e rinascita del Submarino Amarillo


La storia la fa chi vince. O almeno così è nella maggior parte dei casi. Ad esempio, nel 1974 l'Olanda ha perso il Mondiale, ma ha sicuramente scritto una delle pagine più belle e significative della storia del calcio. Gli olandesi si sono arresi all'atto conclusivo anche quattro anni dopo, nel 1978 contro l'Argentina. Era il 25 giugno, si giocava al mitico Monumental di Buenos Aires e la partita finì 3-1: una doppietta di Mario Kempes decise l'incontro. Il giorno prima, il 24 giugno, era nato a San Fernando, una città nella provincia di Buenos Aires, Juan Roman Riquelme. Forte, per carità; di certo non uno di quei giocatori che hanno cambiato il calcio, ma forte. Palmarès un po' povero a dir la verità, però una semifinale di Champions League la ha giocata anche lui. Era il 2006 e toccava a lui adesso scrivere la storia. La partita è Villareal-Arsenal del 25 aprile, semifinale di ritorno di Champions. All'andata era finita 1-0 per i Gunners. Il Villareal, però, era praticamente un miracolo sportivo: Villareal è una città della comunità valenciana e la cosa bella è che ha solo 50000 abitanti. Non bastano nemmeno per riempire i maggiori stadi di Europa, ma erano riusciti a spingere una squadra sino alla semifinale della coppa per club più importante al mondo.
Ora torniamo indietro. È il 1967, il Villareal milita nella Divisione Regionale ed è una delle tante squadre delle tante serie del calcio spagnolo. Una squadra di provincia, insomma. Quell'anno arriva la promozione nella Terza Divisione spagnola e viene festeggiata con Yellow Submarine, la famosissima canzone dei Beatles, cantata però dai Los Mustang un gruppo spagnolo sempre degli anni '60. Da allora la squadra viene chiamata Sottomarino Giallo, Submarino Amarillo in spagnolo. Dal '67 sino alle fine del millennio, il Villareal però stenta e non riesce ad ingranare la marcia e continua ad oscillare tra la Seconda e la Terza Divisione. Nel 1998/99 disputa la prima stagione tra i grandi, ma viene subito rispedito al mittente. Non si perdono d'animo ed ottengono subito la seconda promozione nel 2000, restando nella Liga fino al 2012, anno della drammatica retrocessione. Dalla Champions alla Seconda Divisione il passo è breve. Già, la Champions, ve la ricordate?
Andiamo avanti con la storia. Con la storia di quella semifinale, ovviamente. La partita di ritorno stava per concludersi 0-0, qualificando così l'Arsenal alla loro prima, storica finale. Dall'altra parte, però, il Sottomarino non si arrende e a pochi minuti dalla fine si guadagna un calcio di rigore. Sul dischetto va Riquelme. Il Madrigal può contenere circa 34000 posti, meno dei cittadini di Villareal, ma sono sicuro che in quel momento tutti gli abitanti erano con la mente dentro lo stadio. L'argentino parte, prende la rincorsa: il tiro non è un granché, apre il piattone senza la necessaria sicurezza, quasi come se quello che stesse battendo fosse una preghiera, più che un calcio di rigore. La palla va verso destra, Lehmann, il portiere dell'Arsenal, verso la sua sinistra: detto in parole povere, azzecca l'angolo giusto. Para il tiro e lì finisce, di fatto, la partita. 0-0 che manda i Gunners avanti e lascia la squadra di Pellegrini con l'amaro in bocca. Me le sono immaginate quelle 50000 persone: certo che saranno tristi, ma penso anche molto orgogliose, perché ripeto, Londra ha più di 8 milioni di abitanti, Villareal no. C'è eccome una differenza! Ed è per questo che il Villareal è stato simpatico a tutti, perché è sempre bello vedere Davide contro Golia.
Già, Davide contro Golia. Quando si parla di calcio spagnolo ci sono sempre due Golia: Real Madrid e Barcellona. Tutti si sono sempre sottomessi allo straordinaria supremazia delle due big, ma il Villareal no, anzi è pure riuscita a mettersi in mezzo. Nella stagione 2007/2008 il Sottomarino Giallo è arrivato secondo alle spalle del Real, otto lunghezze avanti, ma staccando di ben dieci punti i catalani, terzi. Una grande prova di forza e maturità, che ha fatto sperare nella nascita di una degna rivale ai due squadroni. Poi è arrivato Guardiola e la musica è cambiata. 


Nel 2011 arriva un'altra qualificazione alla Champions. Il gruppo è di quelli tosti: Bayern Monaco, Manchester City e Napoli. La fine è indegna: sei sconfitte, due gol fatti e quattordici subiti. È l'inizio di una stagione che segnerà la fine di uno dei veri miracoli calcistici degli ultimi tempi. La squadra si gioca la salvezza fino all'ultimo, ma alla fine deve arrendersi e arriva diciottesima. Con la retrocessione se ne vanno via alcuni dei giocatori più importanti, facendo temere un tracollo che avrebbe portato il Submarino ad una completa disfatta. Invece no. Pronti via e si parte male, certo, ma poi inizia tutto a girare bene e la Seconda Divisione si termina in seconda posizione. Un solo anno di purgatorio, poi subito verso la rinascita. La classifica della Liga ora dice: Barcellona 49, Atletico Madrid 49, Real Madrid 44, Athletic Bilbao 33, Real Sociedad 32, Villareal 31. Ora ci sono i cugini del Real a dar fastidio ai due mostri, ma il Villareal è lì, a soli due punti dalla Champions League. Non male per una neopromossa. Ma dopo oltre un decennio nella Liga e notti come quella del 25 aprile 2006, la Champions League non deve più essere un miraggio, anzi, deve essere l'obiettivo primario. Sperando che la prossima volta, al posto di Riquelme, ci sia qualcun altro. 
E per chiudere il discorso, alla fine il Villareal non ha vinto nulla, ma ha scritto una entusiasmante pagina del calcio spagnolo ed europeo.
We all live in a yellow submarine!


domenica 5 gennaio 2014

La Perla nera del Mozambico

José Carlos Bauer è stato un giocatore brasiliano di chiare origini svizzere. Ha raccolto 29 presenze con la Nazionale Brasiliana, ma è al San Paolo che ha legato la sua carriera: undici anni dal 1945 al 1956 e oltre 400 partite. Poco dopo il suo addio al Tricolor, sulla panchina della gloriosa squadra brasiliana arriva Béla Guttmann, allenatore ungherese con una carriera calcistica di quarantanni alle spalle. Probabilmente è qui che i due si conoscono: infatti Guttmann, prima di sedersi ufficialmente sulla panchina del San Paolo, l'anno prima aveva fatto una tournée in Brasile con la mitica Honvéd, anticipando la sua esportazione del 4-2-4. I brasiliani nel 1958 ne fecero buon uso; Pelé, Garrincha, Didi e Vavà fecero il resto: era il quadrato magico del Brasile campione del mondo del 1958 e tutto si doveva al grande Béla. Torniamo però al nostro amico José e alla sua conoscenza con Guttmann. I due erano entrambi degli ex centromediani metodisti, un ruolo che ormai non esiste più, ma che a quei tempi era parte integrante del gioco del pallone. Forse Béla ha provato anche a dare qualche consiglio a Bauer, fatto sta che ormai gli anni erano 33 e il brasiliano decise di appendere gli scarpini al chiodo e di iniziare la carriera di allenatore. 

Nulla, non succede nulla. La sua carriera è ben distante da quella dell'amico ungherese. I due comunque rimangono in contatto e nel 1960 Bauer va a fare una tournée in Mozambico con il Ferroviaria. Qui mette gli occhi su quello che sarebbe stato il dominatore del calcio portoghese per i successivi quindici anni. Lo segnala a Béla, che intanto era passato al Benfica, e l'affare si conclude. Eusébio da Silva Ferreira diventa un calciatore di Béla Guttmann ed è qui che nasce la leggenda. È qui che inizia la storia.
Eusébio nasce il 25 gennaio 1942 a Lourenço Marques, la capitale del Mozambico, che allora era ancora una colonia portoghese. Dopo l'indipendenza la città cambiò nome e diventò Maputo, com'è conosciuta tutt'oggi. Inizia a giocare già a 15 anni nella squadra della sua città: si vedeva già che era destinato ad andarsene da lì, era troppo forte per gli altri. I numeri parlano per lui: 42 partite, 77 gol. Non c'era storia, doveva provare il calcio europeo. A 18 anni arriva il calcio europeo grazie al Benfica, grazie a Bauer che l'ha scoperto, grazie a Guttmann che ha creduto in lui. Nel 1961 un autentico uragano si abbatte sul Vecchio Continente e non risparmia nessuno. In quell'anno il Benfica è campione in carica del Portogallo e ha quindi diritto a partecipare alla Coppa Campioni. Le energie vengono concentrate tutte lì e forse è per questo che gli uomini di Guttmann arrivano solo terzi in campionato. Poco importa. Vincono la Taça de Portugal e arrivano in finale di Coppa Campioni dopo aver fatto fuori Austria Vienna, Norimberga e Tottenham. Dall'altra parte c'era il Real Madrid, a cui proprio i lusitani avevano rubato lo scettro di regina d'Europa l'anno prima, interrompendo l'egemonia lunga cinque anni degli spagnoli. Quindi non era una semplice finale, era campioni contro campioni. Gli unici fino ad allora ad aver scritto il loro nome nell'albo d'oro della manifestazione. 
È il 2 maggio 1962, si gioca allo Stadio Olimpico di Amsterdam e si gioca un derby tutto iberico: undici portoghesi per il Benfica, otto spagnoli più tre naturalizzati per il Real, che ha anche l'allenatore spagnolo. I lusitani invece no, perché loro hanno Guttmann, che è ungherese, nato a Budapest. Proprio come uno dei tre naturalizzati nelle file del grande Real. Parlo, ovviamente, di Ferenc Puskas, che forse viene esaltato dal fatto di giocare contro un allenatore del suo stesso paese, della sua stessa città, e ne mette dentro tre in 21', quasi a voler dire al vecchio Béla che i migliori sono in Ungheria, senza bisogno di andarsene in giro per il mondo. Il primo tempo finisce 3-2 per gli uomini di Munoz e gli spagnoli già festeggiano. Non avevano fatti i conti con Eusébio però. Ci mette anche lui una ventina di minuti: al 51' pareggia Coluna, poi dal 65' al 68' sale in cattedra la Perla nera. Uno-due micidiale che spezza le gambe al Real e porta il Benfica sul 5-3. Inutile dire che la partita finisce lì, perché quel Benfica era davvero di un'altra categoria. Il Grande Real delle cinque Coppe era finito, i giocatori erano vecchi ormai. Ok, è vero, però avrebbero messo in cassaforte altre quattro vittorie in Europa. Il Benfica invece? Loro no e la colpa è proprio di chi li ha resi grandi, quel Béla Guttmann che lanciò la maledizione secondo cui il Benfica non avrebbe più vinto la Coppa Campioni e nessuna squadra portoghese avrebbe vinto due volte Coppa. Il Porto ha vinto due volte, anche se non consecutive, ma il povero Benfica ha fatto in tempo a perdere cinque volte in finale. L'ultima volta nel 1990: il grande Eusébio prima della finale contro il Milan prega sulla tomba del suo grande mentore Guttmann. Non c'è niente da fare però. Quel Milan era anche più forte del Benfica che umiliò il Grande Real: 1-0 Rijkaard, senza storie.

Eusébio, Guttmann e Coluna

La storia di Eusébio, però, va avanti, non si ferma a quel 2 maggio 1962. L'anno dopo, infatti, il Benfica è ancora in finale di Coppa Campioni. Davanti c'è il Milan di Nereo Rocco e sulla panchina dei portoghesi non c'è più Guttmann. Eusébio però non si fa intimorire da nessuno e fa quello che gli riesce meglio: segnare. Poi però sale in cattedra José Altafini che con una doppietta manda il Diavolo in Paradiso e inizia a far capire che la maledizione di Guttmann è qualcosa di concreto.
Due anni dopo tutti iniziano a capire che qualcosa di maledetto deve esserci. A San Siro è l'Inter a bissare il successo dell'anno prima e ad aggiudicarsi la Coppa Campioni del 1965.
La beffa più grande, però, rimane quella del 1968. Ancora a Wembley, dove avevano perso con il Milan. Sulla strada verso la terza Coppa c'è il temibile Manchester United di George Best e Bobby Charlton. È proprio il campione del mondo inglese a siglare l'1-0. Graça pareggia a 10' dalla fine e poi... e poi succede l'impensabile. A poco dalla fine Eusébio si trova in area contro il portiere Stepney marcato da due difensori, spara una cannonata delle sue da posizione ravvicinata, ma la palla non entra, rimane salda tra le braccia del portiere inglese. Il portoghese reagisce in maniera più che sportiva, applaudendo alla parata di Stepney, che intanto aveva mandato via il pallone in avanti. Eusébio, invece, aveva mandato via la possibilità di rivincere la Coppa. Ai tempi supplementari gioca solo lo United, che in 3' ne mette dentro tre, con le firme di Best, Kidd e ancora Charlton. Sarebbe stata l'ultima occasione di Eusébio per vincere la Coppa Campioni.
Torniamo indietro di due anni adesso. La location è sempre la stessa, ma stavolta si giocano i Mondiali di calcio. Eusébio è semplicemente magnifico, superbo durante quei venti giorni. Ne mette dentro due al Brasile campione nella fase a gironi, vince da solo ai quarti contro la Corea del Nord che si era incredibilmente trovata avanti 3-0: quattro gol e un assist ed è 5-3 Portogallo. In semifinale trova l'Inghilterra e Bobby Charlton. Il futuro Pallone d'oro di quell'anno sigla una doppietta anche in quell'occasione, ma il portoghese non sta a guardare e segna il primo gol alla difesa inglese dopo quattro partite al mondiale. Finisce 2-1 per l'Inghilterra che va in finale. La finalina contro l'URSS la gioca, la vince e segna ancora: sono 9 gol, è il titolo di capocannoniere. Però arriva terzo e un vincente come lui non se ne fa niente del terzo posto. Piange, come forse è anche giusto che sia. La sua nazione non arriverà mai più a un traguardo così alto, neanche negli anni recenti con Figo prima e Cristiano Ronaldo poi.

Eusébio dopo la semifinale del 1966

Lui non si perde d'animo però e continua a vincere campionati e coppe in Portogallo. Alla fine saranno 11 titoli portoghesi e 5 Coppe di Portogallo. Nel 1975 decide di migrare in America, tra nord e sud. Vincerà anche qui un campionato, poi nel 1979 si ritira. A 37 anni e dopo oltre 20 anni di carriera. I numeri non bastano per rendere il degno omaggio a questo campione, ma io ve li dico lo stesso: con i club sono 585 gol in 571 partite, solo con il Benfica 473 reti in 440 apparizioni, con la Nazionale 41 centri in 64 presenze. Ovviamente, con tutti questi gol, sono arrivati anche tanti titoli di capocannoniere: oltre a quello del Mondiale del 1966, anche sette volte quello del campionato portoghese e tre volte quello della Coppa Campioni. I 42 gol nel 1967/68 e i 40 nel 1972/73 gli sono valsi due Scarpe d'oro. Nel 1970 e nel 1973 è stato eletto calciatore portoghese dell'anno, mentre nel 1965 è stata tutta l'Europa a rendergli omaggio, consegnandogli il Pallone d'oro. Pelé lo ha incluso nel FIFA 100, la IFFHS lo colloca al 9° posto tra tutti i più grandi del XX secolo. Al decimo posto c'è il suo amico/nemico Bobby Charlton, all'ottavo Garrincha, ve lo ricordate? Uno dei componenti del quadrato magico importato da Béla Guttmann, il grande mentore della Perla nera. 
Eusébio è stato semplicemente il più grande calciatore portoghese della storia. Si è messo sulle spalle il Benfica e il Portogallo e li ha resi grandi a suon di gol, tanti gol. Eusébio per me significa molto, era uno dei più grandi della storia del football. Mi dispiace dire che se ne sia andato, ma prima o poi tocca a tutti. 
Ciao Eusébio, non sarai mai dimenticato!