giovedì 14 agosto 2014

Lampard e quella promessa mantenuta solo a metà

Il Chelsea, come lo conosciamo oggi, dominante in Inghilterra e in Europa, è nato sul finire degli anni '90 grazie, principalmente, a due italiani: Gianluca Vialli e Gianfranco Zola. Insieme - prima in campo, poi con Vialli in panchina - hanno portato a Londra una FA Cup, una Coppa di Lega Inglese, una Charity Shield, una Coppa delle Coppe e una Supercoppa UEFA. In poche parole, hanno raddoppiato il palmarès del Chelsea, che vedeva solo una First Division, una FA Cup, una Coppa di Lega, una Charity Shield e una Coppa delle Coppe. I primi due, veri protagonisti della rinascita dei Blues sono loro e, ancora oggi, Zola è ricordato come uno dei migliori giocatori della storia del Chelsea, se non addirittura il migliore, come emerso da un sondaggio di qualche anno fa. La svolta decisiva arriva però con l'acquisto della società da parte del magnate Roman Abramovich. Il russo prende in panchina José Mourinho, che porta definitivamente alla ribalta la squadra di Stamford Bridge. Arrivano subito due Premier League e una FA Cup in tre stagioni, ma all'inizio della quarta c'è il divorzio. È la stagione più difficile da affrontare per Terry e compagni, perché si ritrovano senza la loro guida, il maestro che gli ha fatto conoscere il gusto della vittoria dopo anni di anonimato. È la stagione più difficile anche per Frank Lampard, simbolo della rinascita del Chelsea. Arrivato nel 2001 a 23 anni dal West Ham, nel 2007 si apprestava ad iniziare il suo settimo anno con la maglia dei Blues, ma alla soglia dei trent'anni aveva voglia di cambiare e provare nuove esperienze. Nella sessione di mercato invernale, Juventus e Inter premono forte per ottenere il centrocampista inglese, ma si conclude in un nulla di fatto. Ed è così che Frankie continua a giocare per il Chelsea ed è così che arriva a disputare il derby inglese contro il Liverpool in semifinale di Champions League. Era il 30 aprile 2008. L'andata ad Anfield si concluse 1-1. Anche al Bridge i primi 90' finirono 1-1 e si dovette andare ai supplementari. Al 98' Lampard batte un calcio di rigore. E segna. Fa 2-1 e poi corre verso la bandierina e si inginocchia. E piange. Scoppia in un pianto surreale, abbracciato da tutta la squadra. Non sono lacrime di felicità, però. No, sono lacrime amare, tristi. Le lacrime di chi ha appena perso una madre. Sono anche le lacrime di chi ha fatto una promessa a quella madre, poco prima di morire. Sono le lacrime di un giocatore, anzi di un uomo, legato da sette anni alla stessa squadra e che ha promesso alla madre che quei sette anni sarebbero diventati sempre di più e che la propria carriera sarebbe finita lì. L'estate dopo Juventus, Inter e Barcellona erano solo un ricordo passato. Il presente si chiamava Chelsea, sancito da un rinnovo che avrebbe legato Frank a vita alla squadra di Londra. Con gli anni sarebbe diventato il marcatore più prolifico nella storia dei Blues. Con gli anni avrebbe vinto tutto quello che c'era da vincere, inclusa quella Champions League, persa nel 2008 contro il Manchester United, ma vinta nel 2012 contro il Bayern Monaco. La promessa era stata mantenuta. Ogni gol, da quel 30 aprile, aveva un significato speciale per Lampard, che ogni volta alzava le braccia il cielo, ricordandosi della sua amata mamma. 


Con Mourinho ha vissuto tre anni bellissimi, segnando 60 gol in 170 presenze: cifre mostruose per un centrocampista. Con Mourinho ha iniziato a vincere, senza poi smettere. Cambiando allenatori, certo, ma mantenendo sempre intatta quella sua innata dote per il gol, quella che lo ha sempre contraddistinto e che con il portoghese è uscita fuori definitivamente. Forse è proprio per questo che Frank ha aspettato il ritorno - annunciato - del portoghese per dire basta. Basta con il calcio, tutti si aspettavano. E invece no. Lampard è migrato in America, per poi andare in prestito nientemeno che al Manchester City. Un affronto duro per i tifosi del Chelsea, che non hanno affatto gradito la scelta di uno dei loro uomini più rappresentativi. E in un calcio in cui le bandiere son sempre meno, questa è stata una mossa che ha fatto rabbrividire qualsiasi tifoso.
Il mio pensiero, in questo momento, va a sua mamma e a quella promessa mantenuta solo a metà. A quella promessa buttata via. A quella promessa che tutti si aspettavano sarebbe stata mantenuta, o, quantomeno, non sconvolta in questo modo. Perché fra tutte le squadre di questo mondo in cui andare, ha scelto una fra le peggiori. E, forse, dopo questa strana estate, il giocatore più amato dai tifosi del Chelsea, rimarrà ancora "Magic Box" Gianfranco Zola. Uno che, ovunque sia andato, ha sempre lasciato un segno. Segno che Lampard ha sì lasciato nel cuore dei Blues, ma che rischia di essere cancellato da una scelta assurda e illogica. 






lunedì 11 agosto 2014

E ora cosa sei? E dove sei?

«La Freccia Bionda lo fui un tempo. Poi fui la "Carretta Bionda". E ora sono il calvo che corre per il campo, lottando come il più giovane per tutta la partita». Così Alfredo Di Stéfano si definì sul finire della sua splendida carriera. E come dargli torto: era calvo, sì, ma aveva mantenuto la stessa grinta che lo contraddistinse negli anni migliori. Quelli che lo videro vincere qualsiasi cosa tra Argentina, Colombia e Spagna, in una carriera ultra-ventennale che lo ha consacrato tra i migliori di sempre nella storia del calcio. Il suo palmarès parla per lui: tredici campionati e due coppe nazionali, oltre, ovviamente, alle famose cinque Coppe Campioni consecutive, conquistate con il Real Madrid. Nel 1957 e nel 1959 vinse il Pallone d'oro, quale miglior giocatore europeo. A livello personale, inoltre, conquistò un totale di dieci titoli di capocannoniere nelle varie competizioni a cui prese parte. Questi, pochi, numeri possono bastare per celebrare la grandezza del calciatore. C'è un però: Alfredo è morto. È morto e con la sua scomparsa il calcio ha perso un pezzo di storia, un pezzo della propria identità. Con l'addio di Di Stéfano il calcio ha perso uno dei suoi migliori attori, registi, produttori e sceneggiatori. Insomma, il calcio è diventato un po' più vuoto da quel 7 luglio 2014. E la domanda che mi faccio, ora, è soltanto una: dopo essere stato la Freccia Bionda, la Caretta Bionda e il calvo, adesso, caro Alfredo, cosa sei? E soprattutto dove sei? Dove sei tu, insieme a tutti quei grandi campioni del passato, appartenenti ad un calcio che ormai non c'è più? Dove sono i calciatori modello di una volta, i veri professionisti del pallone? 
Domande stupide, che non avranno mai una risposta, ma io me le pongo, sperando di poter vedere nuovamente, un giorno, quei grandi campioni di un tempo, di cui ormai ci restano solo delle sbiadite immagini in bianconero. Sperando, però, anche che quelle immagini rimangano impresse nella memoria della gente, in eterno, affinché nessuno si dimentichi del bel calcio fu. Un calcio in cui Alfredo Di Stéfano la faceva da padrone.
¡Hasta siempre Don Alfredo gracias por todo!



domenica 3 agosto 2014

L'uomo da 24 milioni

E pensare che lo avevano etichettato come malato di mente, José Mourinho. Proprio lui, lo Special One, come si autodefinì al suo arrivo al Chelsea nell'estate del 2004. Era il campione d'Europa in carica, fresco vincitore della Champions League con il suo Porto. Quello era ancora l'inizio della sua carriera, che lo avrebbe poi portato a diventare uno degli uomini più importanti del calcio moderno. Era anche l'inizio del Chelsea di Roman Abramovich. Dopo una stagione con Claudio Ranieri in panchina, il neo-patron russo decise di cominciare a fare sul serio e ingaggiò l'allenatore portoghese, che si portò dietro dal Porto Paulo Ferreira e Ricardo Carvalho, che andarono a costituire una solida difesa insieme ai già presenti Gallas e Terry. Abramovich, però, non si fermò qui e diede libero arbitrio a Mourinho, che in poco tempo, grazie ai milioni del russo, costruì una corazzata. Dal PSV arrivarono Mateja Kezman e un ventenne Arjen Robben, mentre dal Rennes un giovane portiere di nome Petr e di cognome Cech. Degli ultimi due, ne risentiremo parlare. Il botto di mercato, però, è un altro. Dal Marsiglia arriva un attaccante ivoriano di ventisei anni. Risponde al nome di Didier Drogba e viene pagato la bellezza di 24 milioni di Sterline. Una cifra incredibile per quei tempi (passati, purtroppo) e che getta i primi dubbi su Mourinho. La stampa lo accusa di essere un malato di mente, per aver speso tutti quei soldi per un giocatori "buono", ma nulla di più. 
Il portoghese, come suo solito, continua dritto per la sua strada e non ascolta nessuno. Non vuole essere chiamato arrogante, ma in realtà lo è. E lo sa bene. Dice di avere i migliori giocatori e, ovviamente, di essere il miglior allenatore. La squadra di Londra non vince un campionato (il suo unico) dal 1955 e Mourinho sa che il suo unico obiettivo è quello: diventare campione d'Inghilterra. Davanti ha l'Arsenal degli Invincibili campione in carica e il Manchester United di Sir Alex Ferguson. Lui, invece, spende quelle cifre per giocatori bravi, ma non campioni. Va contro tutti e contro tutto e, alla fine, ha ragione lui. A maggio il Chelsea è davanti a tutti: 95 punti, 29 vittorie, 8 pareggi e una sola sconfitta, 12 punti di vantaggio sull'Arsenal e una difesa capace di incassare la miseria di 15 gol. Ha vinto lui, ha avuto ragione lui. C'è un però. Drogba non stupisce e segna solo 16 gol in 41 gare con i Blues: un po' pochini. La metà dell'anno precedente a Marsiglia. Il Chelsea, comunque ha vinto e Mourinho punta ancora più in alto: alla Champions ovviamente, mai vinta dalla squadra londinese. La stagione dopo il Chelsea vince nuovamente la Premier League: è un altro dominio, la quota dei 90 punti viene ancora superata, ma il cammino in Europa si interrompe bruscamente agli ottavi contro il Barcellona di Ronaldinho, futuro vincitore. Nella stagione 2006/2007 il titolo di campione d'Inghilterra torna al Manchester United e Mou si deve accontentare delle due coppe nazionali, mentre in Champions arriva ad un soffio dalla finale, venendo eliminato dal Liverpool. In quella stagione Drogba sboccia definitivamente, timbrando il cartellino 33 volte in 60 gare e conquistando il titolo di capocannoniere in Premier. A settembre 2007 il Chelsea e Mourinho interrompono il loro legame, ma la corsa alla Champions League è sempre viva per i Blues del nuovo allenatore Avram Grant. Questa volta Terry & co. arrivano in finale, ma devono arrendersi al Manchester United nello scontro tutto inglese a Mosca. Il bottino di Drogba è povero in campionato: solo 8 reti. In Champions sono 6 in 11 gare invece. Un trend che sarà il marchio di fabbrica dell'ivoriano, che sarà il vero trascinatore della squadra nelle campagne europee.
La stagione 2008/2009 è travagliata per i Blues e Drogba ne risente molto. Gioca 24 partite in Premier e trova il bersaglio grosso solo in 5 occasioni. Lo stesso numero di gol li segna in 10 partite di Champions League, che sarebbero potute essere 11, se un arbitro norvegese non avesse giocato a favore del Barcellona in semifinale. La seconda finale di Champions consecutiva è dunque sfumata. 
Nel 2009 arriva Carlo Ancelotti a Stamford Bridge e Drogba fa la voce grossa. 29 gol in 32 partite di Premier League e nuovo titolo di capocannoniere. La strada in Europa si interrompe già agli ottavi, contro l'Inter dell'ex Mourinho, che vincerà la competizione, coronando quel sogno. E ripetiamo sogno, non ossessione. 
Nel 2012, un Drogba ormai trentaquattrenne, si carica sulle spalle un'intera squadra. Impegna ogni sua singola energia per far fuori qualsiasi formazione gli si presenti davanti tra martedì e mercoledì. La cavalcata verso la finale di Monaco di Baviera inizia male, con un 3-1 a Napoli. Da quel momento in poi, complice l'arrivo di Roberto di Matteo in panchina, il Chelsea cambia e fa fuori i partenopei con una grande rimonta. Poi è il turno del Benfica, prima dell'epica semifinale contro il campioni del Barcellona: ancora loro. Al Bridge decide, stranamente, Drogba. Al Camp Nou, sotto 2-0, i Blues rimontano fino al 2-2. È l'apoteosi. Con un Drogba così, tutto è possibile. La finale dell'Allianz Arena, contro i padroni di casa del Bayern Monaco, è epica. Thomas Mueller porta in vantaggio i suoi al minuto 83, ma a poco dalla fine è ancora Drogba con un poderoso colpo di testa a firmare l'1-1. Ai rigori vince il Chelsea e il rigore decisivo è inutile che stia a dire chi lo segnò.

Dopo quella partita l'ivoriano lasciò i Blues. 341 partite e 157 gol, due titoli di capocannoniere, tre Premier League e quella Champions League che nessuno era mai riuscito a portare dalle parti di Londra. Drogba se n'è andato da leggenda e, ora, i malati di mente sono quelli che andavano contro Mourinho. 
Già, Mourinho. Nel 2013, ai quarti, il Real del portoghese affrontò il Galatasaray di Drogba. Non ci fu storia e i madrileni passarono con un 5-3 totale, ma nel ritorno un meraviglioso gol di tacco dell'attaccante ivoriano fu sufficiente per far capire al mondo intero che lui, l'uomo che aveva portato la Coppa dalle grandi orecchie al Chelsea, non era finito. Anzi. E, forse, l'uomo che più di tutti rimase colpito da quel gesto fu lo stesso Mourinho. E, quasi per un ennesimo scherzo del destino, Drogba vs Mourinho ebbe la sua parte numero tre. Mourinho, nel frattempo, era tornato al Chelsea, per riportare quella coppa a Londra. Agli ottavi c'è subito Chelsea-Gala. Drogba torna a Stamford Bridge due anni dopo. Per i tifosi è come se non fosse mai andato via. Passa il Chelsea, fermato solo in semifinale dal sorprendente Atletico. 
Mourinho, però, ha sempre quello in testa: vincere. La Champions, ovvio. Dopo una stagione "da secondo" al Chelsea, ha deciso che per arrivare fino in fondo serviva una scossa. La scossa si chiama Didier Drogba, l'uomo da 24 milioni. Quello che, al suo "addio" nel 2012, aveva già ampiamente dimostrato di valerne ogni singolo penny. 
Ora che sia Mourinho che Drogba sono tornati a Londra, i tifosi possono festeggiare e sognare. Dopo dieci anni sembra tutto come prima. Sarà il campo a decidere, alla fine, se anche i risultati saranno gli stessi. L'unica cosa sicura, comunque, è che José Mourinho, dopo l'acquisto di Drogba, era tutt'altro che un malato di mente.