giovedì 27 giugno 2013

Brasile in finale


Lasciamo stare la cabala, perché se no in Brasile ci sarebbe ben poco da festeggiare. Infatti nessuna squadra vincitrice della Confederations Cup, ha poi trionfato nel Mondiale successivo.
Parliamo però di ciò che ha detto Scolari, secondo cui il fatto di giocare in casa, possa trasformarsi in uno svantaggio per la sua squadra. Fino ad adesso non ha avuto molta ragione (per sua fortuna) e anche la storia dice che il Brasile gioca bene in casa.
Campionato Sudamericano di football 1919: nazione ospitante il Brasile, vince il Brasile.

Campionato Sudamericano di football 1922: nazione ospitante il Brasile, vince il Brasile.
Campionato Sudamericano di football 1949: nazione ospitante il Brasile, vince il Brasile.

Copa America 1989: nazione ospitante il Brasile, vince il Brasile.
Ma la storia dice anche che il 16 luglio 1950 al Maracana di Rio de Janeiro, si consumò una delle tragedia più drammatiche della storia del Brasile. Il Brasile perse all'ultima giornata del girone decisivo per l'assegnazione del titolo mondiale, contro l'Uruguay. Da lì, la Celeste è diventata un nemico pubblico per i brasiliani e da quel giorno si pensa che il Brasile in casa non riesca a giocare.
Con i quattro titoli di campione del Sud America sopraccitati, si può dire che non sia tanto vero il fatto che i verdeoro non sappiano gestire la pressione del loro pubblico. Anche perché nel 1989, si giocò al Maracana il 16 luglio l'ultima partita del girone per decidere chi avrebbe vinto quella Copa America. Il Brasile vinse 1-0 grazie a Romario contro l'Uruguay. 39 anni dopo avevano avuto la loro rivincita. 

Ma torniamo ai giorni nostri. Perché in quel maledetto 16 luglio di 63 anni fa, venne condannato il portiere di quel Brasile, tale Barbosa. Ieri, invece, la squadra di Scolari ha vinto anche grazie al loro portiere, quel Julio Cesar che ha parato il calcio di rigore a Forlan. Julio Cesar è bianco, e può sembrare una semplice formalità. Ma non da quelle parti. Perché Barbosa era nero e da quel 16 luglio nella Nazionale verdeoro venne stabilito un "patto" secondo cui nessun portiere di colore avrebbe mai più dovuto difendere la porta dei brasiliani. Non c'è niente di scritto, ma questa regola è stata mantenuta per quasi tutti questi 63 anni, tranne rare eccezioni. E quindi è per questo che Brasile-Uruguay del 26 luglio 2013 assume delle sfumature ancora più strane e affascinanti.
Ma chissà se i brasiliani si ricorderanno più di Julio o di Fred e Paulinho, che in finale ce li hanno portati con i gol. Del resto si sa che in Brasile contano solo i gol. 


mercoledì 26 giugno 2013

La vera batosta

Adesso io non voglio star qui a parlare né dell'Inghilterra, né dell'Ungheria, né tanto meno di quell'Ungheria-Inghilterra. Voglio semplicemente dirvi che non basta "creare" uno sport per essere i migliori. Almeno non per sempre.

L'esordio della Nazionale Inglese è datato 30 novembre 1872. Un anonimo 0-0 contro la Scozia. Quasi dieci anni più tardi, a Belfast, i Three Lions spazzeranno via l'Irlanda (unita) con un roboante 13-0, che rimane tutt'oggi la vittoria più ampia dei maestri del calcio. 
Già, maestri del calcio. Ma pure i maestri del calcio hanno subito delle brutte sconfitte. Soprattutto in ambito internazionale, dopo che si decisero a partecipare ai Mondiali, non andarono bene. Dal 1950 al 1962, non andarono mai oltre i quarti di finale al Mondiale. Poi, nel 1966 riuscirono a vincerlo, in casa, con dei piccoli aiutini però. Fatto sta, che i maestri, non erano più così tanto maestri. Anche perché, nel frattempo, i brasiliani si erano dati da fare ed erano diventati i "nuovi maestri".
Bene, facciamo un piccolo passo indietro. Perché i maestri avevano, ed hanno, una loro casa, un loro fortino, che sembrava inespugnabile. Nessuno era mai uscito vincitore da Wembley. Lì sì, che erano ancora loro i maestri. Poi però, arrivarono gli ungheresi, quelli dell'Aranycsapat. Puskas, Czibor, Kocsis, e tutti gli altri. Una squadra d'oro, appunto. Era il 25 novembre del 1953, 100.000 spettatori avrebbero assistito ad uno degli eventi calcistici più importanti del secolo scorso. Perché a Wembley gli ungheresi scrissero la storia. Tre gol di Hidegkuti, due di Puskas e uno di Bozsik. Inghilterra 3 Ungheria 6. Era finito pure il mito di Wembley.
Ma non è questa la partita più importante. Perché gli inglesi, orgogliosi come sono, vollero una "rivincita" in casa degli ungheresi il 23 maggio successivo. Stavolta la squadra di Sebes ci andò giù pesante. "Come pesante? Vuol dire che quel 6-3 non era niente?", potreste dire voi. Ebbene sì, perché gli inglesi tornarono a casa con un solo gol fatto, ma ben sette subiti. Era terminata 7-1 e se andate a cercare la peggior sconfitta della Nazionale Inglese troverete questo Ungheria-Inghilterra del 23 maggio 1954. 
Era un'amichevole, certo, ma era la dimostrazione che non si può essere per sempre i migliori. Nemmeno nello sport da te stesso "creato" e perfezionato. Fu una vera batosta, di quelle che rimarranno scritte per sempre nella storia del calcio.
Ed io, amante di quella Ungheria, ricorderò queste due partite sempre con grande felicità, perché squadre come quella passano una volta ogni vent'anni.

Billy Wright e Ferenc Puskas prima di Inghilterra-Ungheria a Wembley

martedì 25 giugno 2013

Un anno!


Con questo fanno 136 post in 365 giorni, compresa quella lunga pausa che mi presi da settembre a febbraio. Dato che amo le statistiche, posso dire che ho pubblicato 0,37 post al giorno. Un dato inutile, che non cambia la vita né a me, né tanto meno a voi. Ma anche questo post, del resto, è inutile. Più che altro è una celebrazione, una auto-celebrazione, che mi sono voluto regalare. Perché per me scrivere qui è  uno sfogo. Qui posso scrivere quello che mi passa per la testa. E poi, voi, mi fate pure i complimenti. Cosa voglio di meglio? 
Ah, sì. Il risotto che mi aspetta. Ciao e grazie!



lunedì 24 giugno 2013

Brava Nigeria


Perdere non è mai bello, ma forse è meglio di vincere uscendo comunque da una competizione. 
Prendiamo ad esempio la Nigeria, costretta alla vittoria contro la temibile Spagna. Ma non ad una semplice vittoria, bensì ad un 4-0 contro i campioni di tutti. In una sola parola: impossibile. 
Non solo non è arrivata la vittoria, ma la Roja ha pure inflitto un roboante 3-0 ai campioni d'Africa, che hanno dovuto quindi salutare la Confederations Cup anzitempo. Il punteggio, però, può trarre in inganno. La Nigeria ha cercato per tutti i 90' di segnare almeno un gol alla Spagna, sfiorandolo in diverse occasioni e tenendo il pallino del gioco nelle proprie mani in varie parti del match. 
La Nazionale africana, che all'esordio contro Tahiti aveva fatto sembrare la formazione di Etaeta quasi una squadra con il suo perché, ha dato il meglio di sé contro chi ha umiliato Tehau e compagni, cioè Uruguay e Spagna. Contro Suarez & co, gli uomini di Keshi si sono dannati l'anima, trovando pure il momentaneo 1-1 con un ritrovato Obi Mikel, uno che segna una volta sì e 100 no. Alla fine Forlan ha segnato il 2-1, facendo vincere la propria Nazionale e condannando quella africana all'eliminazione, perché, come già detto, avrebbe dovuto vincere 4-0 contro le Furie Rosse.

Proprio contro la squadra di Del Bosque, le Aquile hanno giocato una grande partita, finita con un risultato sin troppo ingiusto. Una partita che è stata giocata a viso aperto da entrambe le squadre, come se la loro qualificazione fosse ancora in bilico. E allora è qui che è uscita la Spagna, cinica e letale, ma anche un po' fortunata. Un chiaro avvertimento per i loro prossimo avversari.
Ma in ogni caso, brava Nigeria!

John Obi Mikel esulta dopo il gol contro l'Uruguay

domenica 23 giugno 2013

E la difesa?


Otto gol possono essere un buon bottino, se visti sotto la voce "reti segnate"; ma si possono trasformare in una tristissima statistica se visti sotto la voce "reti subite". L'attacco, in qualche strano modo, funziona; la difesa, in cui l'Italia è sempre stata maestra, è allo sbando. 
Chiellini e Barzagli sembrano i cugini brutti di quelli che si son visti nella Juventus, Abate e Maggio sembrano per certi versi inguardabili e De Sciglio commette ancora troppi errori, ma potrà crescere. Forse la colpa è nel modulo (la Juve gioca a 3 in difesa, quindi quei tre si trovano meglio così), ma si è già visto che l'Italia con 3 dietro non è che giochi molto bene. Forse la colpa è nella condizione fisica precaria (Chiellini ha perso nettamente il confronto fisico con Fred), ma anche negli altri stati si son giocati campionati da 40 partite. 
Io, ovviamente, non sono Prandelli e non posso sapere a cosa è dovuto questo calo fisico e mentale, quindi lascio trovare a lui la soluzione.


Io mi concentro più su una statistica: era dal Mondiale del 1970 che l'Italia non prendeva otto gol in una competizione così importante. Ma in Messico le partite giocate furono il doppio, sette gol furono presi tra semifinale e finale, e tornammo a casa da secondi, dietro solo ad un Brasile troppo meraviglioso per chiunque. Quindi sì, questi otto gol incassati contro Messico, Giappone e Brasile, devono far riflettere, e tanto. Perché lo sapete bene che esistono due filosofie: da una parte si cerca di subire un gol in meno dell'avversario, dall'altra si cerca di fare un gol in più dell'avversario. E anche giocando a calcio con il secondo metodo, otto gol rimangono troppi. Ieri mi è stato detto che anche quattro gol sarebbero stati tanti. Per quanto mi riguarda, anche due sono tanti. Anche per Scolari, che due effettivamente li ha presi, sono tanti. Soprattutto perché lui è uno che ci tiene alla fase difensiva, che preferisce prendere meno gol possibili. Se a ciò abbini il fatto che in Brasile vivono per segnare, ottieni una discreta Nazionale, con una bella mentalità e con un ampio margine di crescita. Un esperimento che è già riuscito a Scolari, quando vinse il Mondiale del 2002 segnando 18 gol e subendone quattro in sette partite. Invece per l'Italia, che ha nel proprio DNA il fatto di difendersi, la difesa diventa tutto e quando questa viene meno, ci troviamo in situazioni scomode.

Non battiamo il Brasile dal 1982, quando Paolo Rossi segnò quella mitica tripletta in Spagna. E se continuiamo così, questi 31 anni saranno destinati a diventare molti di più.
Questa è la seconda quaterna incassata da Prandelli, dopo quella della finale dell'Europeo contro la Spagna. Proprio gli iberici saranno (inutile girarci intorno) i nostri prossimi avversari in semifinale. A Prandelli il compito di non subire gol contro una squadra che segna con estrema facilità.


venerdì 21 giugno 2013

Esultare per passione



Spagna-Tahiti 10-0. Un risultato che non lascia repliche. Lo sapevamo, lo aspettavamo tutti. Le Furie Rosse avrebbero demolito la piccola Tahiti, in un Davide contro Golia sin troppo scontato. 
Torres fa la voce grossa e ne segna quattro, sbagliando pure un rigore. David Villa risorge dopo un brutto periodo e timbra i gol numero 54, 55 e 56 con la maglia della Roja, ampliando il suo record. Con David Silva (doppietta) e Mata a completare l'opera. Una spagna molto straniera, molto inglese. Ma il risultato non cambia. Non perché è Tahiti, ma perché le riserve della Spagna potrebbero comodamente vincere ciò che hanno vinto i titolari negli ultimi anni. Ammesso e non concesso che i quattro spagnoli sopracitati siano delle riserve.
Ma passiamo agli sconfitti, quei simpaticoni della Polinesia Francese. Più in particolare passiamo a quel
Mickaël Roche, il portiere che ha incassato i dieci gol. Un ragazzo che si avvia verso i 31 anni, che nel tempo libero gioca sulla spiaggia, con ottimi risultati.
Prima si becca un calcione da Torres, che molto sportivamente rimane lì ad assicurarsi di non aver fatto troppi danni. Poi i due si parlano e secondo me Roche ha detto "Nando, siamo qui, al Maracana, godiamoci lo spettacolo e restiamoci più tempo possibile". 
Con il passare dei minuti, ogni tiro spagnolo finisce in fondo al sacco, con il povero Roche che non può nulla. Anche se a volte ci mette del suo, ad esempio sulla tripletta di Villa, in cui cicca clamorosamente il pallone, spalancando la porta all'attaccante del Barça. Ma per il resto non si arrende mai, disputando un partita tutto sommato dignitosa, con qualche bella parata.
Già, le parate. Anche quando ormai il punteggio diceva 8-0, ad ogni parata il portiere tahitiano esultava come se avesse segnato, provocando una grandissima ovazione di tutto lo stadio. 
Non per il risultato, non per i soldi. Lui esultava per passione, perché si divertiva a giocare contro i giocatori della miglior nazionale al mondo e giustamente andava fiero ad ogni parata. E poi, sai che bello poter dire di aver fatto sbagliare un rigore a Torres al Maracana?
Bravo Mickaël!





giovedì 20 giugno 2013

Italia-Giappone 4-3

Lo sanno tutti che splendida non è sinonimo di perfetta. Infatti il Giappone ha giocato in maniera splendida, ma facendo dei piccoli errori che l'Italia ha sfruttato benissimo. Per il resto i giapponesi hanno giocato con la loro solita grinta e determinazione, trascinati da un grande Keisuke Honda e da un magnifico Shinji Kagawa.


È proprio il giocatore del CSKA Mosca ad aprire le marcature al 21' su rigore generosamente concesso dall'arbitro dopo un incredibile errore di De Sciglio, che nel tentativo di retropassaggio per Buffon, tiene il piede troppo molle, costringendo il numero 1 della Juventus ad un intervento al limite. Il portiere tocca più palla che Maeda, ma Abal indica il dischetto. Il giapponese biondo non sbaglia e fa 1-0, dopo 20' in cui si erano visto solo i nipponici.
Un dominio che continua anche dopo e che viene coronato dalla splendida girata del centrocampista del Manchester United Kagawa, abile ad inserirsi in area su una palla rimessa in mezzo in cui la difesa si è trovata completamente in difficoltà. Con estrema facilità, invece, l'ex Borussia Dortmund trova un gran gol che sembrava aver messo gli Azzurri k.o. Ma poco prima della fine del primo tempo, Pirlo si guadagna un corner, lo batte e trova la testa di Daniele De Rossi che accorcia le distanze, facendo andare le squadre negli spogliatoi sul punteggio di 2-1. Ma il Giappone potrebbe anche recriminare per questo punteggio, quanto mai bugiardo per i valori visti in campo.


Nella ripresa è tutta un'altra partita e l'Italia parte subito forte e trova due gol in 1'. Prima è Giaccherini, abile a credere fino all'ultimo in un pallone che sembrava ormai di Yoshida, a mettere in mezzo il pallone per Balotelli, che viene anticipato da Uchida per il più classico degli autogol. Pochi secondi dopo, un altro calcio di rigore: Hasebe tocca con la coscia, ma per Abal ha toccato con il braccio. Altro penalty generosissimo e Balotelli non sbaglia. Da 0-2 a 3-2, l'Italia pur giocando male è riuscita a rimettere le cose a posto.
Il Giappone però non si da per vinto e trova il pareggio con il colpo di testa di Okazaki su punizione di Endo. Nei minuti successivi il Giappone sfiora a più riprese il vantaggio, colpendo anche palo e traversa nella stessa azione. Però il calcio è crudele e non sempre premia i migliori. In contropiede Marchisio appoggia per Giovinco che, tutto solo, non può sbagliare. 4-3 all'86' e partita in ghiaccio. 


Non ci sta però il Giappone che continua ad attaccare, trovando ancora il pareggio, ma in fuorigioco.
Finisce quindi 4-3 Italia-Giappone, una partita bellissima e davvero emozionante. Non come un altro 4-3 con protagonista l'Italia, ma di sicuro una partita di cui sentiremo parlare ancora a lungo.
L'Italia vince e adesso si giocherà il primo posto nel girone contro il Brasile.


martedì 18 giugno 2013

"We are the champions"

Al gol dell'1-3 di Tehau contro la Nigeria, la pagina Twitter ufficiale della Nazionale di Tahiti  (https://twitter.com/TahitiFootball) ha twittato, tra le altre cose, "#WEARETHECHAMPIONS", a simboleggiare il fatto che quel gol per loro era già una grande vittoria. In realtà, a dirla tutta, era già un grandissimo traguardo essere arrivati fino in Brasile per partecipare alla Confederations Cup. Quindi, il gol segnato da Tehau è entrato di diritto nella storia del calcio, non solo tahitiano, ma di tutta l'Oceania, che dopo aver "ceduto" l'Australia all'Asia, si è ritrovata senza la propria nazione di punta. 
Tahiti, ovviamente, non arriverà mai ai livelli della nazionale dei canguri, ma sta facendo vivere un sogno a tutti, nessuno escluso. Un sogno ai calciatori, allo staff, ai suoi abitanti. E sta facendo divertire ed emozionare un po' tutti. Divertire con le loro camicie a fiori all'arrivo in Brasile e le collanine indossate durante l'inno e poi regalate agli africani. Emozionare perché vedere tutti i giocatori e lo staff tecnico commuoversi durante l'inno, fa capire che un po' di umanità in questo sport ancora c'è. 
Io, sbilanciandomi un po', per queste tre partite starò sempre dalla parte di Tahiti. E (sperando che arrivi) al prossimo gol mi metterò a pagaiare anche io.


E poco importa che poi la Nigeria abbia vinto 6-1.

lunedì 17 giugno 2013

Pirlo e Suarez: due punizione storiche


100 presenze in Nazionale sono tante. Nella Nazionale Italiana solo Cannavaro, Buffon, Maldini e Zoff ci erano riusciti fino a ieri. Due portieri (e che portieri!) e due difensori (e che difensori!), nessun giocatore dal centrocampo in su. Da ieri, però, al prestigioso club dei 100, si è aggiunto anche Andrea Pirlo, autentico leader e trascinatore della Nazionale. 100 presenze in undici anni: una storia partita in Azerbaigian il 7 settembre 2002. Ieri la cornice era completamente diversa, perché era la Confederations Cup, contro il Messico, ma soprattutto si giocava al mitico Estadio Mario Filho, meglio noto come Maracanã, uno degli stadi più importanti del mondo. Uno stadio in cui si sono giocate grandi partite, uno stadio in cui Zico è diventato Zico. Insomma, un grandissimo stadio ricco di storia.
La partita inaugurale venne giocata il 16 giugno 1950 tra le rappresentative giovanili di Sao Paolo e Rio de Janeiro. Vinsero i primi per 3-1 e il primo gol lo segnò il mitico Didì, allora ancora ventenne. Ben presto sarebbe diventato un grandissimo giocatore, che verrà per sempre ricordato per aver inventato la famosa punizione a "foglia morta". E quindi il 16 giugno 2013, nella partita inaugurale del nuovo Maracanã, Andrea Pirlo ha deciso di festeggiare la sua presenza numero 100 con la maglia dell'Italia con una delle sue punizioni magiche. Caressa ha commentato dicendo: "Questa non è una maledetta, ma è una benedetta", speriamo che ci possa portare fortuna e farci vincere l'unico trofeo che manca nel ricco palmarès della nostra Nazionale.


Qualche ora più tardi a Recife, all'Arena Pernambuco, è andata in scena la prima partita del gruppo B tra Spagna e Uruguay. La Roja ha dominato in lungo e in largo, facendo registrare il 73% di possesso palla e chiudendo praticamente subito la partita grazie alla fortunosa rete di Pedro e al 2-0 di Soldado. Verso la fine però, quando mancavano circa 2' al 90', Luis Suarez ha tirato fuori dal cilindro una grande punizione, che non solo ha permesso alla Celeste di accorciare le distanza, ma ha anche permesso all'attaccante del Liverpool di agganciare Diego Forlan in cima alla classifica dei migliori marcatori dell'Uruguay a quota 33 reti. Un bel traguardo, considerando che Suarez ha giocato anche una trentina di partite in meno rispetto all'ex Atletico Madrid. 


venerdì 14 giugno 2013

Quel Polonia-Inghilterra del 16 ottobre 2012


No no, tranquilli. Se non trovate la corrispondenza di date è tutto a posto. Infatti quella partita venne giocata il giorno dopo per impraticabilità del campo. E proprio su questo fattore vorrei raccontarvi un aneddoto, che scrissi già su Facebook: "Inghilterra-Polonia è stata rinviata per la troppa pioggia. E allora mi è tornato in mente un episodio di qualche anno fa. Wayne Rooney era ancora all'Everton, sarà stato 2003/2004, e un allenamento della squadra di Liverpool venne annullato proprio per lo stesso motivo: la troppa pioggia che rendeva impraticabile il campo.
Dunque Moyes, allenatore dei Toffees, fece una riunione con tutta la squadra negli spogliatoi. Ad un certo punto tutti si guardarono intorno e dissero "Dov'è Wayne?". Guardarono fuori dalla finestra ed era lì, sotto la pioggia ad allenarsi. Al che Moyes gli disse di entrare negli spogliatoi, ma il ragazzo di Liverpool rispose che "In partita, con queste condizioni del campo, un rimbalzo sbagliato può farti perdere la partita".
E allora peccato che l'abbiano rinviata la partita dei Three Lions. Peccato Wayne, so che l'avresti voluta giocare. Quantomeno per dimostrare che quegli allenamenti a 18 anni, ti sono serviti a qualcosa.
Peccato."
Adesso Rooney e Moyes si riuniranno. Sperando che le sirene di mercato non facciano nuovamente dire a David "Dov'è Wayne?", perché il posto dove il ragazzo di Liverpool deve stare è l'Old Trafford.



La vendetta è un piatto che va servito freddo

Concordano con il titolo i tedeschi. Proprio loro che furono beffati nella finale Mondiale del 1966 in Inghilterra contro i padroni di casa, i maestri del calcio, che non potevano sbagliare quell'appuntamento. Infatti non sbagliarono e vinsero il primo titolo della loro storia. Ma a sbagliare fu il sovietico Tofik Bakharamov, il guardalinee che prese una delle decisioni più importanti della storia del calcio: convalidare il gol di Hurst nella finale tra Inghilterra e Germania. Fini 4-2 per gli inglesi, con i tedeschi infuriati e pronti a vendicarsi.
30 luglio 1966 - 14 giugno 1970, quasi quattro anni per prendersi una bella, tremenda, vendetta.
Stavolta si giocano i quarti di finale, ma gli uomini di Alf Ramsey sono intenzionati a ribadire la propria superiorità. Al 31' è Mullery a segnare l'1-0, seguito da Peters al 49'. 2-0 e tutto chiuso, no? No! Sir Ramsey commette un grave errore di presunzione, facendo rifiatare Bobby Charlton, l'uomo che aveva marcato un certo Franz Beckenbauer, facendolo scomparire dal campo. Il Kaiser ringrazia il tecnico dei Three Lions, e mette a segno la rete che accorcia le distanze. Seeler pareggia e si va ai supplementari. Senza Charlton e Peters, due degli uomini più imporanti, e senza Gordon Banks in porta, la Nazionale Inglese sprofonda ed è Gerd Mueller a mettere a segno il 3-2 all'inizio del secondo extra-time. Per l'Inghilterra è la fine della favola, per i tedeschi è la dolce vendetta. Servita fredda, freddissima, dopo ben quattro anni e per questo ancora più bella. Poco importa che tre giorni perderanno in semifinale contro l'Italia, perché quattro anni dopo riusciranno a battere l'Olanda di Cruijff in finale e a vincere il loro secondo Mondiale. Ma queste sono tutte altre storie. Allora era già sufficiente essersi presi una giusta rivincita dopo la disgrazia di Wembley.


giovedì 13 giugno 2013

Il Real Madrid scrive il proprio nome nella storia

La storia, alla fine, è sempre quella: dimostrare di essere i migliori, sul campo. E fu così che L'Equipe, il noto quotidiano francese, decise di smentire la stampa inglese, che proclamava i propri club come i più forti, senza uno straccio di prova sul campo.
Il torneo più importante giocato fino ad allora a livello di club era stata la Coppa dell'Europa Centrale, giocata dal 1927 al 1940, in cui i migliori club ungheresi, cechi, austriaci, jugoslavi (prima) e italiani (poi), si diedero battaglia per la supremazia continentale a livello di club.
Ma serviva qualcosa di nuovo e che comprendesse più nazioni. Quindi, nel 1955, Gabriel Hanot, editore de L'Equipe, convocò i delegati di 16 fra le migliori squadre in Europa. Con l'appoggio (un po' forzato dal timore di vedere nascere una nuova competizione in forma privata) di FIFA e UEFA, nacque la Coppa dei Campioni. Coupe des clubs champions européens in francese e European Champion Clubs' Cup in inglese, abbreviato in European Cup che divenne anche il nome più usato e diffuso.
Sedici club, dunque, al via. Tra i favoriti non potevano mancare i 19 volte campioni nazionali del Rapid Vienna, il Budapest Voros forte dei suoi 17 titoli, e i campioni in carica del Milan, dello Stade de Reims e del Real Madrid. Anche se, come al solito, la FA decise di non far partecipare nessuna squadre inglese alla competizione, in quanto per loro erano già i migliori. 
Il 4 settembre 1955 partì la competizione con gli ottavi di finale, che si sarebbe conclusa il 13 giugno 1956 con la finale al Parco dei Principi di Parigi (ovviamente).
Le favorite non tradirono le aspettative e passarono tutte il turno, andando ai quarti. Adesso si cominciava a fare sul serio, ma solo due squadre sarebbero arrivate in finale e quelle due squadre furono il Real Madrid e lo Stade de Reims. Gli spagnoli eliminarono con un secco 7-0 gli svizzeri del Servette, prima di dover sudare ai quarti contro il Partizan Belgrado (4-0, 0-3), in semifinale ci fu il primo Real Madrid-Milan degno di nota, dove ad aver la meglio furono i Blancos con il risultato complessivo di 5-4. Dall'altra parte del tabellone, Stade de Reims e Aarhus diedero vita ad un bell'ottavo (4-2 il totale), i francesi poi ebbero ragione anche del Budapest Voros dopo due match spettacolari terminati 4-2 e 4-4, mentre in semifinale l'Hibernian fu fatto fuori con un rotondo 3-0.
Real Madrid e Stade de Reims. Da una parte Di Stefano, Gento, Rial; dall'altra il trio d'attacco composto da Bliard, Templin ed ovviamente lo splendido Kopa (futuro Merengues).
Dopo 10' i francesi erano avanti 2-0, ma il Real Madrid non si diede per vinto e rimontò tra il 14' e il 30' con Di Stefano e Rial. Nel secondo tempo lo Stade de Reims si riportò in vantaggio con Hidalgo al 62', ma Marquitos e Rial ribaltarono il risultato, facendo vincere gli uomini di José Villalonga per 4-3. 
Finiva così la prima edizione della Coppa Campioni. Capocannoniere fu Milos Milutinovic con 8 gol, uno in più della leggenda Di Stefano, che si sarebbe preso rivincite negli anni successivi. Il Real Madrid inaugurava così il ciclo vincente delle cinque Coppe consecutive, un record ancora oggi imbattuto.


martedì 4 giugno 2013

Ad una traversa dalla semifinale

Sono Asamoah Gyan, ho 24 anni e sono disperato. Perché? Provate a mettermi nei miei panni, provate a pensare come mi sento oggi. Non ho dormito, ho pianto tutta la notte. Non tanto per me, quanto per i miei fratelli africani che credevano in me. Dopo 120' tirati, ero stanchissimo, avevo dato tutto e avevo preso anche un po' di botte. E quando ho visto Suarez toccare il pallone con la mano ho pensato che era il mio momento. Avevo già calciato bene due rigori, vi ricordate? Alla prima con la Serbia e poi con l'Australia. Ho preso il pallone, allora, e sono andato sul dischetto. In un attimo ho sentito gli occhi e i sospiri non solo degli 84000 del Soccer City, ma di tutti i fratelli africani che avevano voglia di vivere, grazie a me, un momento storico. In quei secondi ho immaginato la gioia che avrei potuto regalare, le feste interminabili e il mio nome inciso per sempre nella storia del mio paese, del mio continente. Un peso eneorme! Ma ci pensate?! Ho solo 24 anni! E allora, quando ho preso in mano lo Jabulani, era pesantissimo, ho guardato la porta ed era microscopica e Muslera enorme. Ho preso un respiro e mi son detto: calcia forte fratello, buca la rete e poi urla tutta la tua gioia!
Ci ho provato, credetemi, ma purtroppo è andata come sapete: pochi centimetri più in su. Dopo il rigore ho pianto, ma ho anche pregato. Mi son detto: non è finita, adesso vinciamo ai rigori. E sono andato subito a battere il primo. E avete visto come l'ho calciato bene. Poi però i miei fratelli Mensah ed Adiah, non ce l'hanno fatta. Anche per loro lo Jabulani era pesantissimo. Ma io sono andato subito a consolarli, perché la colpa era tutta mia, bastava segnare il rigore giusto. Ricordo che quando ero in Italia, ascoltavo una canzone. Francesco de Gregori, mi sembra si chiamasse l'autore, che diceva che un giocatore non si giudica da come calcia un rigore... scusate, non ricordo bene le parole, mi comprenderete. Ma andatelo a dire ai miei compagni e ai milioni di africani che, per colpa mia, hanno smesso di sognare.
E poi che rabbia vedere quel capellone che ha avuto il coraggio di tirare il rigore decisivo facendo il cucchiaio. Io, quel coraggio, non l'ho avuto e non me lo perdonerò mai!
(Asamoah Gyan, attaccante del Ghana, dopo i quarti di finale dei Mondiali 2010 tra Uruguay e Ghana, vinti ai rigori dai sudamericani)


Uruguay in semifinale... ma forse, moralmente, il Ghana, la meritava di più!
(Maurizio Compagnoni, telecronista Sky)
Qualcosa di buono si trova sempre in mezzo alle mie robe di calcio. 

lunedì 3 giugno 2013

Un ritorno Special

"Vi prego di non chiamarmi arrogante, ma sono campione d'Europa e credo di essere speciale." 
Si presentò così, José Mourinho, nove anni fa al Chelsea, con una frase che è praticamente entrata nella leggenda e che son sicuro lo accompagnerà fino alla morte. Già alla prima conferenza stampa fece capire di che pasta era fatto.
In quella prima esperienza, durata tre stagioni, vinse per due volte la Premier League (record di punti e titolo a Stamford Bridge dopo 50 anni), due Carling Cup e una FA Cup. Dal suo addio, nel 2007, i tifosi dei Blues non lo hanno dimenticato, come lui non si è dimenticato di loro. "Nella mia carriera ho avuto due grandi passioni, l'Inter e il Chelsea, e il Chelsea è molto più che importante per me. E' stato molto difficile giocare contro questo club. Ai tifosi prometto le stesse cose che ho promesso nel 2004 e dico: sono uno di voi".
Dunque, dopo sei anni, due Scudetti, una Coppa Italia, una Supercoppa Italiana, una Liga, una Coppa del Re, una Supercoppa di Spagna e una UEFA Champions League, lo Special One torna a Londra, dove vorrà continuare a vincere. Magari aggiungendo un altro titolo di campione d'Europa. Sarebbe il terzo, quello che serve per raggiungere un certo Bob Paisley in cima alla classifica dei più vincenti di sempre.
Il Chelsea, il calcio inglese, l'Inghilterra, ritroveranno Mourinho. Solo una cosa sarà brutta: non ci sarà più la sfida tra il tecnico portoghese e Sir Alex Ferguson. Ma questa è un'altra storia.
La cosa bella, invece, sarà vedere il prossimo Chelsea-Tottenham: l'allievo (Villas-Boas) riuscirà a superare il maestro? Io attendo impaziente.
Come attenderò anche la prossima Supercoppa Europea (un titolo che gli manca, guarda caso), in cui il suo Chelsea sfiderà il Bayern Monaco di Pep Guardiola. Sempre rivali, anche in nazioni diverse.
Bentornato Mou!


domenica 2 giugno 2013

I Mondiali di Jules Rimet


Di solito preferisco lo scrivere al leggere, perché lascia più spazio alla fantasia. Ma non sempre è così, anzi, a volte sono proprio quelle parole scritte su quelle pagine da persone a noi sconosciute a farci entrare in un altro mondo, quasi magico. Persone che non abbiamo mai visto, di cui magari non abbiamo mai sentito parlare, diventano, dal nulla, i nostri compagni d'avventura per quelle 500 pagine. 
È capitato così a me leggendo "I Mondiali di Jules Rimet", scritto da Alessandro Trisoglio. A partire dai progenitori del football, fino ad arrivare a quel Edson Arantes do Nascimento, l'unico in grado di vincere per tre volte la Coppa Rimet. Oltre 100 anni di storia calcistica racchiusi in un libro, ricchissimo di aneddoti e particolari, che lo rendono semplicemente magnifico: una gioia per chi, come me, vive di calcio.
Me lo sono immaginato Andrade, la Meraviglia Nera, piangere disperato a terra alla fine del pirmo tempo della prima finale, quella del 1930 tra Uruguay e Argentina. "Non possiamo perdere! Loro sono argentini e noi uruguagi!", ho riso leggendo ciò, sapendo della mitica rivalità tra le due nazioni del Rio della Plata. Le parole di Andrade servirono da scossa per la sua squadra, che vinse la prima edizione del Campionato Mondiale. 
Me li sono immaginati i giocatori dell'Italia nel pre-ritiro del 1934, fatto qui vicino a me, in una pensione chiamata L'Alpino. Io, lì, ci ho dormito qualche anno fa e ciò mi rende orgoglioso, felice. A maggior ragione sapendo che Meazza e compagni vinsero contro la Cecoslovacchia, diventando campioni del mondo. Un successo bissato quattro anni dopo in Francia. Dove ci fu quel Brasile-Cecoslovacchia passato alla storia come "La battaglia di Bordeaux "(http://calciobybeppe.blogspot.it/2013/05/la-battaglia-di-bordeaux.html). E me lo sono immaginato Leonidas mal concio, tanto da dover saltare la semifinale contro l'Italia. E Planicka, quel portierone rimasto in campo pure con un braccio rotto. Storie di altri tempi, di un altro calcio.

Poi la Guerra e niente Mondiali. Nel 1942 la nazione ospitante sarebbe dovuta essere la Germania, ironia della sorte furono proprio i tedeschi a far saltare tutto. Compresa l'edizione del 1946. Il tutto dopo aver fatto scomparire l'Austria dell'edizione del 1938. 
Me li sono immaginati gli italiani che nel 1950 si fecero Italia-Brasile in nave, perché l'aereo era un tabù: chi si sarebbe sognato di fare un volo dopo la tragedia di Superga? 
Mi sono immaginato i brasiliani nello sconforto più totale dopo la disfatta dell'ultima partita. Bastava un pareggio, arrivò una sconfitta. La più tragica dell'intera storia brasiliana (http://calciobybeppe.blogspot.it/2012/07/io-non-cho-mai-provato.html). Ho provato anche ad immaginare Jules Rimet consegnare la Coppa a Varela, mentre attorno una squadra, uno stadio, una nazione piangeva, come ad aver perso un figlio.
Mi sono immaginato Puskas e compagni dominare il mondo a suon di gol e calcio spettacolo, fino a quel 4 luglio 1954, quando vennero rimontati dalla Germania Ovest nella finale di Berna. 
Mi sono immaginato la vittoria del Brasile del 1958, rivivendo le immagini del fantastico gol di Pelé in finale contro la Svezia. Quel ragazzino di neanche 18 anni si apprestava a diventare il migliore del mondo. 
Mi sono immaginato quel Cile-Italia 2-0 nel 1962, quando l'arbitro Aston diede il via libera alla caccia all'uomo da parte dei cileni. Fino ad arrivare alla finale, con Masopust in grande spolvero, ma impotente difronte alla meraviglia del Brasile, privi di Pelé ma con uno splendido Garrincha.
Nel 1966, quando il football tornò a casa, mi sono soffermato di più sulle qualificazioni, sull'Irlanda del Nord in particolare. Ho avuto la possibilità di leggere di George Best, autentico trascinatore di quella nazionale. Un pareggio contro l'Albania consegnò il lascia passare per l'Inghilterra alla Svizzera, negando a Best l'appuntamento mondiale che tutte le grandi stelle meriterebbero.

Ma per una britannica che piange, ce n'è una che ride. Ovviamente parlo dei padroni di casa, che vinsero quel Mondiale grazie ad un tiro di Hurst che non varcò mai la linea di porta. Ma questo è il calcio. Ed è bello così, perché quattro anni dopo i tedeschi si presero la loro rivincita.
Mi sono immaginato il mitico Brasile del 1970, probabilmente la miglior squadra che questo sport abbia mai visto. Il 4-1 sull'Italia in finale ne è la dimostrazione. Ma la partita più bella, fu quattro giorni prima. Quell'Italia-Germania 4-3, con tanto di targa ricordo fuori dalla stadio Azteca. Il giusto riconoscimento per la "Partita del secolo".

Jules Rimet era già morto, fa fu sicuramente fiero del risultato che il suo torneo raggiunse. Parlo al passato perché quella fu l'ultima volta che i giocatori alzarono la mitica Coppa Rimet, sostituita poi dalla Coppa del Mondo FIFA, in quanto il Brasile la vinse per tre volte, assicurandosi il diritto di custodirla per sempre... o quasi, dato che nel 1989 venne rubata.

Mi sono immaginato, io, di fianco a questi e tanti altri campioni. Mi sono immaginato arbitro, dirigente, allenatore, tifoso. Giocatore di calcio e di tsu-chu. Italiano, inglese, ungherese, tedesco dell'ovest e dell'est, francese, brasiliano, uruguaiano, cecoslovacco, con gli occhi a mandarla... insomma, ho cambiato tante nazionalità! Rimanendo, però, sempre seduto su una sedia, sdraiato su un divano, perché infondo ero sempre lì, con il corpo, ma con la mentre ero tornato anni ed anni indietro. Perché è a questo che servono i libri, a trasportarti fuori dalla realtà. Non nego di aver quasi pianto leggendo l'ultima pagina di questo libro, perché non avevo proprio voglia di concludere questo incredibile viaggio attraverso paesi e culture diverse, Un viaggio che non solo mi ha fatto rivivere il calcio, ma anche le varie guerre, i costumi delle nazioni, i tempi che cambiano. Insomma, tutto.
"Il 18 maggio 1929, a Barcellona, i ventitre delegati della FIFA assegnano all'Uruguay l'organizzazione del primo campionato del mondo di calcio. L'ideatore, il presidente Jules Rimet, coronava così il suo sogno Mondiale. E così, il 10 luglio 1930, nasceva, con il torneo, la Coppa Rimet.

Il trofeo durerà nove edizioni, fino al 1970, quando in Messico lo vincerà per la terza volta, e quindi definitivamente, il Brasile. 
Il romanzo della Rimet - con i tabellini completi anche delle qualificazioni - non è solo la più grande storia di sport mai raccontata.
È la nostra Storia. Siamo noi."
Fu così che mi innamorai subito di questo libro. "Se pensavate che io ne sapessi di calcio, non immagino cosa direte quando avrò finito di leggere questo libro.", scrissi su Facebook pubblicando la foto del libro. Ed avevo ragione, perché nonostante sapessi già tanto, adesso so quasi tutto quello che c'è da sapere sui Campionati Mondiali di Calcio.
Tutto questo non sarebbe stato possibile senza Jules Rimet, presidente FIFA dal 1921 al 1954, un uomo fermamente convinto della sua idea: quella di creare un torneo in grado di stabilire chi fosse davvero il più forte. E anche se in alcuni casi l'esito finale è diverso da quello reale, possiamo dire che ci è riuscito.

Quindi bisogna dire grazie a questo uomo francese che ha regalato a tutti noi la possibilità, ogni quattro anni, di vedere i migliori giocatori vestire le maglie delle proprie nazionali per darsi battaglia in quel rettangolo di gioco.
Ma grazie anche all'autore del libro per avermi trasportato in una favola lunga 40 anni, ricca di attori protagonisti o semplici comparse, che a modo loro hanno segnato la storia di questo sport. 

Stare ad elencare tutti i calciatori, gli allenatori, gli arbitri, in cui mi sono immedesimato, sarebbe inutile, anche perché non finirei più. Come sarebbe inutile dire tutti gli stati d'animo che ho provato leggendo quelle oltre 500 pagine, tutte le situazioni che ho immaginato. Sopra ve ne ho dette alcune, ma fidatevi che sono molte, molte di più.
Vi consiglio semplicemente di leggere, perché pur partendo come libro narrativo, va oltre i fatti storici. È un racconto che ti porta a spasso nel tempo. Cosa chiedere di meglio? Per me, questo è il massimo.