mercoledì 23 aprile 2014

Però così i dirigenti rovinano le squadre

Ho deciso di parafrasare un mio pensiero del 5 marzo 2013: avevo parlato di come Manchester United-Real Madrid, gara di ritorno degli ottavi di finale di Champions League, fosse stata condizionata dall'arbitro turco Çakır. Ancora non si sapeva, ma sarebbe stata l'ultima partita di Sir Alex Ferguson nella coppa più prestigiosa. Di lì a due mesi, Sir Alex avrebbe lasciato spazio ad un altro allenatore sulla gloriosa panchina del Manchester United, un club che ha sempre avuto pazienza, con tifosi che hanno sempre supportato il proprio tecnico, indifferentemente dai risultati sul campo. Pareva quasi che la squadra inglese fosse rimasta cinquant'anni indietro nel tempo, ferma forse ancora a Matt Busby e a quell'epoca in cui il calcio era uno sport con sani valori morali. Forse è proprio per questo che David Moyes, l'uomo che ha avuto l'ingrato compito di sostituire la leggenda vivente di Ferguson, sembrava l'uomo giusto: anche lui di Glasgow, anche lui da tanti anni nella stessa squadra (undici all'Everton) e anche lui rivale del Liverpool. Il contratto, poi, non lasciava dubbi: sei anni e una fiducia, di conseguenza, incondizionata. Quasi a dire: ti lasciamo carta bianca, prenditi il tuo tempo e poi si vedrà. Così è stato per Sir Alex, così sarebbe stato per Moyes. Già, peccato che il due volte campione d'Europa, arrivò allo United nel 1986, quando il calcio era ancora veramente uno sport e quando loro, i dirigenti, non si lasciavano influenzare dagli altri, i tifosi, e da quelli, i soldi. 
Ventisette anni sono un'eternità e nel frattempo il calcio è completamente cambiato. Un club, però, sembrava non essere cambiato: il Manchester United. È la squadra più titolata di Inghilterra e gran parte dei trofei li deve proprio a Sir Alex Ferguson, un uomo che ha preso un gruppo alla deriva e nella zona retrocessione, portandolo a vincere tutto. Sì, però il primo trofeo è arrivato dopo quattro anni di attesa. La dirigenza, quindi, è stata paziente. Ed è stata ripagata. È per questo che il Manchester United è diventato il Manchester United: con la pazienza, con l'onestà di dire "si può migliorare, ma c'è bisogno di tempo". Un bisogno, quello del tempo, che forse Moyes aveva ancora più di Ferguson. Un bisogno, però, sempre meno soddisfatto nel calcio moderno, dalle società di oggi. È così che gli esoneri aumentano a dismisura e i progetti duraturi nel tempo svaniscono nel nulla, figli di una mentalità ormai troppo arretrata. 

Nell'Enciclopedia Treccani, si trova: capro espiatorio: l'essere animato (animale o uomo), o anche inanimato, capace di accogliere sopra di sé i mali e le colpe della comunità, la quale per questo processo di trasferimento ne viene liberata. Nel calcio il capro espiatorio è sempre lui, l'allenatore. Lo è in una società normale, figuriamoci nel Manchester United del dopo Ferguson. La squadra va male: colpa di Moyes. La squadra vince, ma gioca male: colpa di Moyes. La squadra non gioca: colpa di Moyes. Era sempre la solita storia. Dietro questa stagione assolutamente da dimenticare, invece, la colpa era anche di altri. Sarà pur vero che Moyes non è riuscito a dare la propria impronta, ma è anche vero che alcuni dei giocatori simbolo della scorsa annata, quella della Premier League dominata, erano ormai alla frutta. Già, perché questi erano (e sono, ancora per qualche settimana) i campioni di Inghilterra in carica. Una squadra che ha dominato lo scorso campionato, lasciando le briciole agli altri. La colpa, di conseguenza, viene data all'allenatore. E invece no, perché quando giocatori del calibro di Nemanja Vidic, Rio Ferdinand, Michael Carrick, capiscono, quasi da un giorno all'altro, di non aver più nulla da dare a questa squadra, l'allenatore ha poche colpe. Anzi, l'unico peccato di cui lo si può accusare, è quello di non essere un grandissimo allenatore. Come Vittorio Pozzo, per dirne uno, che alla vigilia dei Mondiali del 1934 riesumò il grande Giampiero Combi da un bar, per portarlo a vincere la rassegna iridata. Ci sta, quindi, non essere un grandissimo, perché uno come Pozzo passa una volta ogni cento anni, figuriamoci uno come Ferguson. Quindi, David Moyes, è solo da applaudire, perché sfido qualsiasi altro tecnico a far meglio di quanto abbia fatto lo scozzese. La qualità della squadra era alta, sia chiaro, il budget per rifondare la squadra pure, ma quando sono gli stessi giocatori ad abbandonarti, qualcosa andrà comunque storto. Soprattutto quando hanno ormai passato gli anni migliori della loro carriera (alcuni) e quando non si impegnano (altri).

Moyes lo sapeva che sarebbe stata una missione impossibile far andare tutto per il verso giusto sin da subito, anche quando la benedizione arrivava direttamente da Sir Alex Ferguson. Uno che è riuscito a comandare non solo la squadra, ma tutta la società. Lui è stato il vero boss del Manchester United. È stato lui a decidere le sorti del club nell'ultimo quarto di secolo. E questa è una cosa che non è più possibile oggigiorno, perché persone così, adesso, sono scomode. Moyes, quindi, è stato quasi illuso dalla società. Illuso da quel contratto pluriennale che gli garantiva una certa serenità. Illuso da un gruppo di tifosi che lo avevo accolto come "The Chosen One", il prescelto. Invece questa cosa gli si è ritorta contro e dopo le prime difficoltà, anziché supportarlo, gli hanno girato le spalle. A lui e alla squadra. "Moyes out" gridavano i "fan". Un coro che è stato l'inno di una stagione tremenda. Un coro, però, non condiviso da chi per lo United farebbe, e ha fatto, di tutto. Gente come Gary Neville, che anche dopo l'esonero ha preso le parti di Moyes. Gente che ha lo United nel sangue e sa cosa voglia dire fare parte del Manchester United, far parte di una società diversa, che ha fatto dell'essere unica il proprio marchio di fabbrica.
È un esonero che fa male: a Moyes, alla squadra, al marchio del club e a tutti quei tifosi che speravano che le cose sarebbero migliorate, con Moyes in panchina. Il Manchester United, ieri, è diventato come tutte le altre squadre. Una squadra normale. Non che ci sia nulla di grave, ma forse era proprio per questo che le persone nel mondo avevano cominciato a supportare questo club. Proprio per il fatto di essere diverso, unico. Proprio per questo ai tifosi non è mai andata bene la dirigenza americana della famiglia Glazer. Proprio per questo è stato fondato il Football Club United of Manchester, una nuova squadra costruita dai tifosi che i Glazer non li digerivano proprio. Sono passati ormai nove anni, era il 2005. Nel frattempo la squadra è cresciuta, sia a livello sportivo che di tifosi. E sono sicuro, che dopo questa brutta faccenda, il numero di fans cresca. Perché dalle parti di Manchester sanno che i gentlemen del calcio non si trattano così. E Moyes fa parte di quel gruppo di gentlemen, ultimamente troppo bistratti, del calcio di adesso. 

Concludo citando Bill Shankly, storico allenatore del Liverpool, giusto per far capire che il calcio, in Inghilterra, lo hanno sempre visto in modo diverso, tutti: «In una squadra di calcio c'è una Santa Trinità: i giocatori, il tecnico e i tifosi. I dirigenti non c'entrano. Loro firmano solo gli assegni.»


martedì 22 aprile 2014

Torres torna Niño nello stadio che lo lanciò

Era l'estate di sette anni fa e alla porta dell'Atletico Madrid bussò il Liverpool. Dall'Inghilterra si erano portati venti milioni di Sterline, più Luis Garcia. I Colchoneros ringraziarono e diedero il via libera al trasferimento Fernando Torres ai Reds. Dopo sette stagioni e una vita per l'Atletico Madrid, El Niño si preparava a lasciare il club che tanto aveva amato. Sin da bambino, sin da quando nella sua classe delle elementari ventiquattro alunni su venticinque tifano Real Madrid. L'altro, ovviamente, era lui, che tifava Atletico. Il suo sogno era giocare e diventare professionista proprio con questa squadra. Un sogno che prese piede nel 1995, quando, undicenne, venne accolto nelle giovanili. Solo cinque anni più tardi avrebbe fatto il suo esordio nella Segunda Division, per poi ottenere la promozione ed esordire nella Liga a soli diciotto anni. Un traguardo importante, ma che fu superato nel 2003, quando divenne capitano, appena diciannovenne. Quella squadra, però, ad un certo punto cominciò a stargli stretta e capì che i trofei sarebbero arrivati solo altrove. Decise di migrare in Inghilterra, al Liverpool. Ben presto divenne uno degli attaccanti più forti del pianeta, raggiungendo quota cinquanta gol in Premier League in appena settantadue presenze, un record per la società. Intanto arriva anche la chiamata per l'Europeo del 2008. Un titolo che manca alla Spagna dal 1964. L'armata di talenti iberica fa fuori tutti e in finale è proprio un gol di Torres a stendere la Germania e a riportare la Spagna sul tetto d'Europa. Il 2008 si chiude in bellezza, con il terzo posto nella classifica del Pallone d'Oro e del FIFA World Player. Al Liverpool continua a segnare con una continuità disarmante, ma i trofei vinti sono ancora zero. Mentre con la Spagna, nel 2010, arriva il titolo di Campione del Mondo, il primo nella storia delle Furie Rosse. Nel gennaio del 2011 arriva l'offerta assurda del Chelsea, che mette sul piatto cinquanta milioni di Sterline per assicurarsi l'attaccante spagnolo. L'avventura con i Blues si rivela un flop totale. Torres non riesce più a giocare ai livelli di Liverpool e Madrid e finisce sempre più nel dimenticatoio. Nel 2012, comunque, arrivano i primi trofei. Prima la FA Cup, ai danni della sua ex squadra, il Liverpool. Due settimane dopo, il Chelsea conquista la prima Champions League della sua storia, battendo il Bayern Monaco ai rigori. In entrambi le occasioni, però, è Didier Drogba l'eroe, mentre per Torres c'è giusto lo spazio per fare qualche comparsa. Agli Europei del 2012 la Spagna si riconferma campione e Torres è capocanonniere del torneo con tre gol, ma la forma migliore è ormai lontana. L'anno dopo si riscatta in Europa League, trascinando i Blues con sei gol in nove partite alla loro prima affermazione nella competizione. In questa stagione la musica non cambia e si conferma ancora al di sotto degli ormai lontani standard di Liverpool. Questa stagione, però, rimarrà nel cuore del Niño, perché proprio stasera tornerà nello stadio da dove era partito: il Vicente Calderon di Madrid, casa dell'Atletico. Il destino, infatti, ha messo difronte la squadra di Simeone alla squadra di Mourinho, rievocando bei ricordi nella mente di Torres. Gli anni ormai sono trenta e quel bambino prodigio è cresciuto, lasciando i prodigi ad altri, ma almeno per una notte Torres tornerà El Niño, quello che fece impazzire i tifosi dei Colchoneros per sette anni. Quello che si sa che, prima o poi, tornerà a casa. In fondo, quello di sette anni fa, è stato solo un arrivederci. 


sabato 19 aprile 2014

La triste parabola di Testa d'oro

All'alba degli anni '50, un uragano travolse l'Europa calcistica. Erano passati ormai quasi vent'anni da quando, dopo il passaggio del fuorigioco da tre a due, Herbert Chapman rivoluzionò per sempre il mondo del calcio, inventando il Sistema. La difesa era così passata da due a tre uomini, proprio a causa del cambiamento della regola del fuorigioco. 
I primi a vincere con questo nuovo modulo, furono, neanche a dirlo, gli uomini di Chapman, che portò l'Arsenal alla vittoria di due titoli inglesi e una FA Cup. Erano gli inizi degli anni '30 e di lì a poco il Sistema si sarebbe espanso nel resto d'Europa. Alcuni, però, rimasero restii al cambio di modulo e preferirono restare fedeli al Metodo; altri, invece, cercarono di combinare i due schemi. Fu il caso di Hugo Meisl, allenatore del Wunderteam austriaco, che rivoluzionò il calcio danubiano e rese grande non solo l'Austria, ma anche la Cecoslovacchia e, soprattutto, l'Ungheria, che seppero interpretare bene le idee austriache. Proprio queste ultime due nazioni, arrivarono in finale al Mondiale del 1934 e del 1938, entrambi vinti dall'Italia di Vittorio Pozzo, affezionato al suo Metodo. Nello Stivale furono più lenti e il cambio di idee arrivò più tardi, giusto il tempo di entrare nella leggenda. Negli anni '40, infatti, il Grande Torino utilizzò proprio il Sistema per ottenere l'egemonia nazionale. Solo la tragedia di Superga riuscì a sconfiggere l'incredibile squadra granata. La fine di qualcosa, però, segna l'inizio di un'altra. Nel 1949 si siede sulla panchina dell'Ungheria Gusztav Sebes: il calcio non sarà più lo stesso. Il primo accorgimento tattico farà scuola: arretra il centravanti e porta le due mezze ali come prime punte. Era nato il centravanti arretrato. Era nata la Grande Ungheria, quella di Ferenc Puskas, Zoltan Czibor, Jozsef Bozsik, Nandor Hidegkuti, Gyula Grosics e, ovviamente, lui Sandor Kocsis. Testa d'oro.


Sandor Kocsis è nato a Budapest il 21 settembre 1929 e già da bambino si capisce una cosa: da grande farà il calciatore. A sedici anni è già titolare nel Ferencvaros, uno dei club di punta ungheresi, con cui vince il campionato nel 1949. Durante gli allenamenti, andava a ribattere di testa i palloni che i suoi compagni calciavano contro il muro: lui saliva altissimo e poi schiacciava proprio dove voleva. Non era altissimo, solo 1,77 m, ma sapeva saltare benissimo e riusciva a rimanere sospeso il tempo che serviva per impattare il pallone e spedirlo in rete. Ecco perché Testa d'oro, perché un colpitore di testa come lui, non si era mai visto.

Rimane al club biancoverde per cinque anni, prima di passare alla Honved nel 1950. La società rossonera aveva appena cambiato nome da Kispest, un sobborgo poco fuori Budapest, ad, appunto, Honved. Era la squadra dell'esercito e, di conseguenza, doveva avere in rosa il meglio del calcio nazionale. Calcio e politica, come sempre, vanno a braccetto e il governo ungherese usò quel gruppo di grandi campioni per dare una bella immagine del paese all'estero, come a dire: guardate come vanno bene le cose qui da noi. Ecco perché nei libri di storia, oltre che per le loro incredibili doti calcistiche, troviamo Ferenc Puskas come il Colonnello Puskas e Joszef Bozsik come il Deputato Bozsik. Tutti i calciatori della Honved ricoprivano cariche importanti ed erano al sicuro da tutto e tutti. Kocsis, però, non era attratto da queste cose e rimase sempre ai margini delle faccende politiche. L'unica cosa di cui si preoccupava era segnare. E ci riusciva con un'incredibile continuità. Nel 1951, 1952 e 1954 vinse il titolo di capocannoniere del campionato ungherese e con la Nazionale non era da meno. 
Fuori dal campo si divertiva con alcool e donne, sempre nella giusta dose, sempre per rimanere in equilibrio tra il campo e la vita reale. Nel rettangolo verde mieteva record, fuori si divertiva, ma sempre nella giusta maniera, mai sopra le righe. La vita di Kocsis era un perfetto connubio tra dovere e piacere. 
Con l'Ungheria vinse le Olimpiadi del 1952 ad Helsinki, dove segnò in tutte le partite tranne che in finale. In totale furono sei i gol, solo uno in meno di Zebec, che si laureò capocannoniere. A quei tempi la squadra di Sebes non perdeva da due anni, per un totale di quindici partite di fila. Nel giro di dieci mesi, sarebbe arrivata anche la Coppa Internazionale 1948-1953. Il 25 novembre 1953 diventano la prima squadtra ad espugnare Wembley, umiliando i maestri del calcio inglesi 6-3. L'Ungheria, dunque, arrivava al Mondiale del 1954 in Svizzera con tutti i favori del pronostico.



In campo nazionale, la Honved domina e Kocsis segna come se non ci fosse un domani. La ciliegina sulla torta deve essere, per forza, la vittoria del Campionato del Mondo. La Polonia rinuncia al turno di qualificazione e permette all'Ungheria di andare in Svizzera senza neanche il minimo sforzo. L'ultima partita prima dell'avventura mondiale, è la rivincita della vittoriosa trasferta di Wembley. Gli inglesi arrivano a Budapest cercando vendetta, ma i magiari non lasciano scampo a nessuno e si prendono gli applausi del mondo intero: finisce 7-1 e Testa d'oro è ancora protagonista con una doppietta. Arrivati in Svizzera, nel girone, spazzano via la Corea del Sud 9-0 (tripletta di Kocsis) e la Germania Ovest (scesa in campo con le seconde linee) 8-3, con Kocsis che si esalta e ne mette dentro quattro. Dopo solo due partite, quindi, Testa d'oro è già a quota sette gol. Nei quarti di finale va in scena la Battaglia di Berna contro il Brasile. Finisce 4-2 per i magiari, grazie ad una doppietta di Kocsis, che risolve la partita a poco dalla fine, siglando il gol della sicurezza. Per completare l'opera, in semifinale battono i campioni in carica dell'Uruguay, ancora 4-2 e ancora con una doppietta di Kocsis, con due gol fondamentali nei tempi supplementari. Testa d'oro è già arrivato ad undici gol, primo di sempre fra i marcatori del Mondiale. Nessuno è più in forma di lui e della sua Ungheria. Per la finale torna anche Puskas, recuperato dopo l'infortunio contro i tedeschi nel girone. E saranno proprio i tedeschi gli avversari di Kocsis e compagni. La finale, visto il risultato precedente, sembra una pura formalità. L'Ungheria è la squadra più in forma del momento, ha espugnato Wembley, ha umiliato i maestri inglesi e, soprattutto, non perde da trentuno partite consecutive. La squadra di Sebes è passata alla storia come Aranycsapat, la squadra d'oro, e questi sono solo alcuni dei motivi per cui possono vantare un simile soprannome. Il loro è un calcio magico, fatto di nuovi tatticismi e grande tecnica individuale, ma anche un notevole affiatamento, che rese quella squadra inarrivabile per tutti. Erano troppo avanti dal punto di vista tattico, tecnico e fisico. Nessuno sarebbe riuscito a fermare la loro cavalcata trionfale verso il tetto del mondo. I problemi, però, erano in agguato e anche se tutto sembrava andare secondo i piani, il tanto atteso lieto fino non sarebbe arrivato. 

Il 4 luglio 1954 si gioca la finale del Campionato Mondiale di calcio tra Ungheria e Germania Ovest. I magiari volevano vincere quell'alloro che nel 1938 gli era sfuggito a causa della classe di Piola. I tedeschi, invece, volevano far dimenticare la brutta sconfitta del girone. Dopo soli 8', però, la squadra di Sebes ha già messo le cose in chiaro: Puskas e Czibor hanno portato la loro squadra sul 2-0. A questo punto, quasi dal nulla, i tedeschi cominciano a cambiare marcia, a correre il doppio, a non essere stanchi. Al 18' Morlock e Rahn hanno pareggiato. I sessantamila del Wankdorfstadion di Berna si guardano esterrefatti, non capiscono cosa stia succedendo. Come è possibile che la squadra più forte del mondo stia pareggiando contro i tedeschi? Intanto i magiari arrancano e Kocsis esce dal gioco. Non tanto perché siano scarsi loro, ma perché i tedeschi sembrano trasformati, quasi rivitalizzati. L'Ungheria comunque ci prova, ma l'arbitro Ling annulla un gol regolare e non concede un rigore che, quantomeno, si poteva dare. I tedeschi osservano senza fare troppi complimenti e a quel punto nemmeno gli ungheresi ci credono più. Al minuto 84 è ancora Rahn a gonfiare la rete. E' 3-2 per la Germania Ovest. A fine partita è Fritz Walter ad alzare la Coppa Rimet. Per gli ungheresi, non solo si interrompe la striscia di imbattibilità, ma finisce anche un sogno. Un sogno spezzato dai tedeschi, su cui grava una pesantissima accusa di doping, più o meno confermata in seguito. Cosa importa a Kocsis di queste cose? Lui era andato in Svizzera per portare a casa il Mondiale, ma sarebbe tornato a casa da secondo. Non importa come, non importa perché. Era arrivata la prima sconfitta, la prima delusione. La vita non sempre è dolce e con il povero Testa d'oro lo sarebbe stata sempre di meno.
Al rientro in Ungheria, Kocsis continua segnare e vincere. Arriva un altro campionato nel 1955, il terzo con la Honved, il quarto in totale. Macina gol anche in Nazionale: dieci in dodici partite nel 1955, sette in nove presenze nel 1956. Qualcosa dentro di lui, però, è cambiato. Non è più felice, sembra triste. La mazzata definitiva arriva negli ottavi di finale di Coppa Campioni del 1956. La Honved sfida l'Athletic Bilbao, perdendo 3-2 la trasferta spagnola. Il ritorno non si giocherà in Ungheria, perché la situazione non è delle migliori. C'è la rivoluzione e il governo non può certo mostrare la faccia brutta del paese nella massima competizione europea. Il ritorno si gioca a Bruxelles, ma Kocsis e compagni pareggiano 3-3 e vengono eliminati. Da Budapest arriva l'ordine di non rientrare e i rossoneri iniziano un lungo tour in giro per l'Europa, per mostrare tutta la loro classe in partite amichevoli. Il 20 dicembre è l'ora del dietrofront, ma molti giocatori disubbidiscono, non tornando a casa. Tra questi c'è anche Kocsis. Testa d'oro torna nella terra che gli regalò la prima tristezza, la Svizzera. Trova posto negli Young Fellows, che non possono tesserarlo perché la Federazione Ungherese lo ha squalificato per un anno. Comincia così il primo momento di vera crisi di Sandor Kocsis. E' costretto a vendere elettrodomestici per riuscire a vivere ed usa gli ultimi soldi per far arrivare nel paese elvetico la sua famiglia. L'alcool non è più uno svizio, ma diventa un vizio e la distruzione arriva dall'interno. Il più grande colpitore di testa del mondo, uno dei più forti attaccanti del panorama calcistico è sull'orlo del declino. Nel 1957 giocherà per una stagione con la squadra svizzera, mostrando ancora tutta la sua classe, ma giocando con la tristezza che solo chi sta vedendo il proprio paese morire può provare. 
Il sogno di alzare la Coppa del Mondo è ormai un ricordo. Nel 1958 arriva, però, la chiamata del Barcellona, in cui già milita il suo ex compagno al Ferencvaros e all'Honved, Zoltan Czibor, l'incredibile ala della Nazionale magiara. Con loro due in attacco, la squadra catalana vince due titoli nel 1959 e nel 1960. Nel 1960 diventano la prima squadra ad eliminare il Grande Real Madrid dalla Coppa Campioni. Il loro cammino prosegue fino alla finale contro il Benfica. Lo stadio evoca tristi ricordi a Kocsis e Czibor. E' il Wankdorf di Berna, quello dove persero sette anni prima la finale del Campionato del Mondo. Questa volta Testa d'oro segna, con la specialità della casa, il colpo di testa. I portoghesi si riscattano subito e in 2' ribaltano tutto. Al 55' arriva anche il 3-1. Kocsis rivive i fantasmi della partita contro la Germania. Il Barcellona ha un moto d'orgoglio e Czibor accorcia le distanze, ma non c'è più nulla da fare. E' la seconda grande sconfitta nella vita di Sandor Kocsis. Gli anni migliori di carriera sono ormai alle spalle, la Nazionale manca dal 1956 e nel 1965 arriva il ritiro. Ai posteri rimangono i 296 gol in 335 presenze nei club, ma soprattutto le 75 reti in 68 partite con la Nazionale Ungherese, di cui oltre la metà segnate di testa, che lo proiettano al primo posto tra i giocatori con la migliore media gol in Nazionale. 


Quella tanta sognata rivincita Mondiale rimane, appunto, un sogno, un pensiero mai del tutto abbandonato, ma che ad un certo punto è stato messo da parte. La vita sa essere crudele e la caduta dalla cima è presto servita. Dopo il 1954, inizia un vortice che risucchia Kocsis in un tunnel da cui non riuscirà a tirarsene fuori. Nella testa sono ancora presenti le malinconiche immagine della finale mondiale persa, a cui si andranno poi ad aggiungere l'esilio dalla sua terra, l'impossibilità di praticare ciò che più ama e l'altra finale contro il Benfica. Tutte tappe dolorose della vita di Testa d'oro, che dopo gli ultimi gol non esultava nemmeno più. In fondo, che motivo c'era? La depressione aveva ormai preso il sopravvento. La distruzione arrivava dall'interno e i sospetti divennero presto realtà. Angoscianti realtà. Non gli era stata data neanche la possibilità di combattere e per questo decise di non farsi sconfiggere un'ultima volta, anticipando tutti sul tempo, come aveva sempre fatto nelle aree di rigore. Il dolore allo stomaco è ogni giorno più forte e gli esami non lasciano scampo. Testa d'oro ha un ultimo guizzo e decide di spiccare il volo più disperato della sua carriera, della sua vita. La stanza dell'ospedale è abbastanza in alto, solo quello è importante. Il giorno è il 22 luglio 1979, Sandor non aveva neanche 50 anni, ma non è importante l'età, quando la vita ti ha già riservato così tante delusioni. Questa volta non ci sono avversari da superare e anticipare, ma solo il tempo che lo stava corrodendo. Testa d'oro spicca il volo, l'ultimo, quello decisivo. 

sabato 12 aprile 2014

Il Real sfida il passato; Ancelotti il suo futuro?

Se il Real Madrid vorrà mettere, finalmente, le mani sulla Decima, dovrà vedersela nuovamente con una tedesca. Infatti, dopo lo Schalke negli ottavi e il Borussia Dortmund nei quarti, l'urna di Nyon ha ancora messo difronte Real Madrid e Bayern Monaco nelle semifinali di Champions League. È già successo ben cinque volte e i precedenti sorridono ai bavaresi. 
Nel 1976 le Merengues arrivarono tra le prime quattro dopo aver avuto ragione, grazie alla regola dei gol in trasferta, del Borussia Moechengladbach, allora campione in carica di Germania e detentore della Coppa UEFA. Se non bastassero gli intrecci, il bomber di quella squadra era Jupp Heynckes, ex allenatore proprio del Bayern Monaco che ha vinto tutto neanche un anno fa, autore del gol della speranza al Bernabeu. Non fu sufficiente la rete di "Osram", però, e il Madrid passò in semifinale, dove incontrò il Bayern Monaco. Le reti subite furono sempre tre, ma i gol segnati solo uno e poi... e poi i bavaresi erano bi-campioni d'Europa in carica e lanciatissimi verso il terzo trionfo consecutivo. Gerd Mueller fu il mattatore dello scontro: un gol all'andata e due al ritorno, consegnarono la finale al Bayern Monaco. Un gol di Roth, poi, fu necessario per stendere il Saint Etienne e vincere la Coppa per la terza volta di fila, eguagliando l'Ajax.

I tedeschi festeggiano dopo il gol di Roth
Si arriva dunque al 1987. Era il secondo anno senza squadre inglesi (a causa della Strage dell'Heysel), indigeste nel 1981 al Real Madrid (finale persa contro il Liverpool) e al Bayern Monaco nel 1982 (finale persa contro l'Aston Villa). I due club, quindi, volevano affermarsi nuovamente come migliore d'Europa, approfittando dell'assenza delle squadre di Sua Maestà. Soprattutto il Real, che, grazie alla nuova generazione soprannominata "Quinta del Buitre", era riuscito ad imporsi nelle due precedenti edizioni della Coppa UEFA. Questa edizione di Coppa dei Campioni, dunque, rappresentava il vero esame di maturità. Dall'altra parte c'era un Bayern, come al solito, ricco di talenti, ma che mancava un alloro europeo proprio dal 1976. La qualificazione si decise, di fatto, già all'andata, con un netto 4-1 dei tedeschi. L'1-0 del ritorno firmato Santillana, un superstite di undici anni prima, servì a rendere meno amara l'eliminazione dai Blancos. In finale, però, la corazzata tedesca venne sorpresa dal Porto, che si laureò campione per la prima volta nella sua storia, riportando il trofeo in Portogallo dopo un quarto di secolo.

I capitani Santillana e Augenthaler prima della semifinale 
Nel 2000 le due squadre hanno un incontro ravvicinato già nella seconda fase a gruppi, ma è un monologo bavarese: 4-2 a Madrid e 4-1 a Monaco. Riescono comunque tutte e due ad accedere ai quarti di finale, dove superano (entrambe con un 3-2 complessivo e tanta fatica) Manchester United (il Real) e Porto (il Bayern). La sorte le mette nuovamente difronte nelle semifinali. A regalare il passaggio del turno agli spagnoli è Nicolas Anelka, autore di due gol nel doppio confronto, che si rivelano decisivi ai fini del risultato. In finale ci sarà il primo derby tra club della stessa nazione: il Valencia, dopo aver eliminato il Barcellona in semifinale, cerca l'impresa contro i sette volte campioni d'Europa. Morientes, McManaman e Raul hanno altri programmi. Finisce 3-0 e il Real Madrid si porta a casa la Coppa per l'ottava volta.

Anelka in azione contro Linke
L'anno successivo è già tempo di rivincita. Le due squadre passano agevolmente il doppio turno di gironi, terminando sempre in testa e arrivando ai quarti di finali pieni di speranze. Superati Manchester United e Galatasaray senza troppe difficoltà, è ancora tempo di semifinali. I bavaresi fanno il colpaccio al Bernabeu, ripetendosi la settimana dopo in casa: Élber ne mette dentro uno all'andata e uno al ritorno, Jeremies inquadra la porta giusta dopo l'autogol dell'anno precendente e i tedeschi volano in finale. Ad attenderli c'è il Valencia, nel miglior momento della sua storia. I rigori di Mendieta ed Effenberg mandano le squadre fino alla serie dagli undici metri. Kahn è più bravo di Canizares e la Coppa, dopo venticinque anni di attesa, torna in Baviera.

Élber esulta
L'ultimo capitolo della sfida infinita tra spagnoli e tedeschi e storia freschissima. Nel 2012 la finale annunciata sembrava essere Real-Barça, ma le cose andarono diversamente. Ribery e Gomez regolano i madrileni all'Allianz Arena, a cui non basta la rete di Ozil. Al ritorno, una doppietta di Ronaldo in 15' pare spianare la strada verso la finale a Mourinho. Robben, però, riporta il risultato del doppio confronto in parità e la partita si trascina fino ai rigori. Sergio Ramos mira al satellite di Giove, mentre Schweinsteiger è freddissimo. In finale ci va il Bayern, mentre il Real piange. Dall'altra parte Di Matteo, grazie ad un meraviglioso Drogba, trova la formula per annullare il Barcellona.

I bavaresi festeggiano il passaggio del turno
I tedeschi, nella finale giocata in casa, sfiorano il trionfo nei tempi regolari e supplementari, ma saranno nuovamente i rigori a decidere il vincitore. E se è vero che sono una lotteria, è anche vero che ciò che danno, poi tolgono. Proprio Schweinsteiger, l'eroe della semifinale, sbaglia il rigore decisivo, permettendo a Drogba di andare dal dischetto con la possibilità di portare la Coppa a Londra per la prima volta. L'ivoriano, ovviamente, non sbaglia e stavolta sono i bavaresi a piangere e a veder sfumare il quinto trionfo continentale. Poco importa, perché l'anno dopo avrebbero vissuto una stagione magica, conclusa con un meraviglioso treble. Qualcosa che potrebbe ripetersi quest'anno, dato che i bavaresi hanno già vinto la Bundesliga e sono in semifinale di Coppa di Germania. Inoltre, nessuna squadra è ancora riuscita a vincere due volte di fila la Champions League da quando ha assunto questa denominazione: un motivo in più per portare a casa il trofeo.
Anche il Real Madrid di Carlo Ancelotti è ancora in corsa per il triplete, essendo in lotta nella Liga ed in finale di Coppa del Re. In Champions League il destino gli ha riservato lo Schalke, il Borussia e il Bayern. Rispettivamente la terza, la seconda e la prima forza del campionato tedesco. Che sia forse un segnale? Ancelotti, infatti, ha vinto in Italia, Inghilterra, Francia e, molto probabilmente, riuscirà a portare a casa un trofeo anche in Spagna. A quel punto, rimarrà solo la Germania da conquistare. Sarà quella la nuova sfida di Carletto? Chissà. Prima, però, c'è il super Bayern di Pep Guardiola da superare, per vincere, finalmente, la tanta sognata Decima.